mercoledì 14 dicembre 2016

Father and son

Me lo ricordo bene, il giorno in cui Tomic è diventato il più giovane tennista della storia a vincere l’Australian Open junior. Aveva 15 anni e tre mesi, Bernie, era la vigilia della festa nazionale del 2008 e il governo federale stava per chiedere scusa agli aborigeni, ai nativi arrivati sull’isola nel Paleolitico e che per la legge del Commonwealth fino agli Anni 60 contavano come i koala. Ma con qualche diritto in meno sulla prole. Anche a Melbourne Park si respirava un ponentino da volemose bene, o forse era solo l'ennesima impennata del PIL, cresciuto del 5% alla faccia della recessione che incombeva sul resto del globo. Da una parte del Pacifico i mutui subprime tiravano giù Lehman Brother, Goldman Sachs e tutto il cucuzzaro, dall'altra Canberra distribuiva soldi a fondo perduto ai contribuenti, per evitare che la crisi entrasse nel linguaggio della gente e il timore delle conseguenze strisciasse nelle loro case. Nel quadretto alla Anne Geddes, l'unico settore nel quale l'Australia sembrava precipitata nella grande depressione era quello della racchetta: i canguri avevano chiuso il 2007 senza giocatori tra i primi venti, in Davis erano bastati Vliegen e Rochus per obbligarli ai play off e due pischelli come Djokovic e Tipsarevic per spedirli fuori dal World Group. L'exploit di Tomic cadeva a fagiolo per digerire la seconda retrocessione in cent'anni e per mettersi alle spalle il momento più basso dell'ultimo mezzo secolo di tennis.

Me lo ricordo bene, dicevo, perché c'ero. Ma siccome di tennis non ho mai capito una mazza, in quella finalina avevo preso in simpatia lo sfidante. Non era né gusto dell'orrido né Schadenfreude, il mio. È che il Wonder Boy del Queensland mi risultava insulso come i palazzoni della sua Gold Coast, legnoso come i suoi movimenti e piatto come il suo dritto. Al contrario dell'altro, tale Yang Tsung-hua. Un taiwanese rubicondo, sovrappeso e con un discreto braccino, che con quel faccione da Doraemon ispirava simpatia, serviva a 215 all'ora e aveva tenuto a bada il piccolo aussie per un set e mezzo, prima di fumarsi un break di vantaggio nel secondo ed evaporare nel terzo nel giro di 20 minuti. Bernie e il suo smanicato erano finiti la sera stessa sulle cronache nazionali, dove lo sbarbatello nato a Stoccarda era stato etichettato come - nell'ordine - prodigioeredetedoforo (nel senso di chi raccoglie il testimone - ci misi un po' a capirlo), un tonic (questa invece la colsi al volo) per lo svaporato tennis down under. Il carico da undici l'aveva lanciato Giorgio Di Palermo, col quale avevo visto il match a spizzichi e bocconi. "Questo ha tutto per diventare top 5" mi disse il membro del board ATP. Tutto. A parte qualche sinapsi, forse. E un coach.

Quello di Bernie era da sempre babbo Ivica, detto John perché gli australiani sono allergici a qualsiasi idioma barbaro, e quando azzeccano un termine ne storpiano il senso. Per cui chiamano babushka la matrioska, confetti i coriandoli, latte il caffelatte e via dicendo. Croato emigrato in Germania prima che la guerra nei Balcani facesse danni, trasferito dall'altro capo del mondo quando il primogenito aveva 3 anni, John Tomic aveva trovato un impiego come tassista. Part time, perché tanto a portare la pagnotta a casa ci pensava la moglie Adisa, e poi perché così gli restava tempo per coltivare ambizioni da Richard Williams. Progetti che avevano cominciato a prendere forma la mattina in cui father and son erano capitati davanti ad un garage sale, la vendita delle cianfrusaglie di chi svuota il ripostiglio o sta traslocando. Davanti a tutto quel bendiddio, Bernie aveva indicato un racchetta. "Voglio questa", aveva bisbigliato. La leggenda vuole che John l'abbia pagata con una moneta da mezzo dollaro, ma la conferma è impossibile - Ivica grugnisce tanto ma parla poco, e mai con la stampa. Il resto è cronaca: Bernie muove i primi passi al Queen's Park Tennis Club di Southport, a 12 anni vince il primo dei suoi due Orange Bowl, a 13 sale in capo al ranking dei suoi coetanei, sempre a 13 anni porta a casa 23 partite di fila e un paio di titoli ITF tra gli under 18, a 14 anni fa il bis in Florida ed entra di diritto nel tabellone principale di uno Slam junior, quello di casa. Rivelandosi - anche in questo - il più precoce tennista di sempre. 
  
Alle porte dei 15 anni, Tomic guida i compagni alla conquista della Coppa Davis junior nelle finali di Reggio Emilia contro l'Argentina, quindi firma con l'IMG un triennale a sei cifre, seguito da un contratto con la Nike e da un accordo con la Head. Infine, quindici giorni prima di incidere il proprio nome sulla coppa junior dell’Australian Open, Bernie mette in saccoccia anche i primi due punti ATP, annullando cinque match point a Jimmy Wang nel primo turno delle qualificazioni dei grandi. Ai giornalisti, poi, spiega di voler frantumare il primato di John Alexander, debuttando in Davis prima dei 17 anni e racconta senza mezzi termini di puntare dritto al vertice. Affinché non si pensi che i suoi sogni siano solide realtà, Tomic junior aggiunge che entro i 20 anni vincerà un major, uno qualsiasi, seguito in rapida successione dagli altri tre Slam. Infine specifica che sta lavorando per ritrovarsi tra le mani un servizio alla Ivanisevic e i colpi da fondo alla Federer, ma che la mentalità vincente è già paragonabile a quella di Sampras. Quanto agli attributi - che ve lo dico a fa' - al momento siamo già ai livelli di Hewitt. L'ingrendiente non pervenuto è sempre quello. L'allenatore.

Eppure anche lì il buongiorno si vede molto prima dell'alba. A dicembre, quando nel ranking dei piccoli balla tra la casella numero 2 e la numero 5, e nella classifica dei big è salito al 774, Tomic abbandona il Future di Wangara durante un match di secondo turno contro Matosevic. Nel Western Australia è l'estate più calda dell'ultimo trentennio, ma il problema non è l’afa né l’avversario ma siede al suo angolo. Con Bernie sotto 6-2 3-1, John perde la pazienza con un paio di giudici di linea, che a suo dire ignorano "una dozzina di falli di piede" dell'altro australiano di matrice balcanica. Quel diavolo di un Matosevic - sempre secondo John - serve con entrambi i piedi "10-15 centimetri dentro al campo" e la fa sempre franca. Morale: Ivica schiuma rabbia, scomunica tutti gli ufficiali e trascina Bernie fuori dall'impianto. Il 2008 di Tomic si chiude così, con una squalifica dell'ITF e un ritiro che non sarà né il più plateale né l'ultimo. L'Australia, che sperava di aver trovato l'erede di Philippoussis, si ritrova tra le mani un cucciolo di Koellerer. Col padre a carico.

Nonostante l'incidente di percorso, l'anno seguente Bernie gioca bene le sue fiches su tre tavoli e fa cassa dappertutto. Titolo junior allo Us Open, primo successo challenger a Melbourne e prima vittoria nel main draw di uno Slam. Sempre sul beneamato plexicushion di casa, vittima un Potito Starace formato Babbo Natale. Tomic ha 16 anni e 3 mesi, scippa al campano tre tie break su tre, mette un'altra crocetta alla casella record all time e a fine 2009 può annunciare che è finito il tempo delle mele e arrivato quello di fare sul serio. La classifica c'è, la stoffa bene o male anche, ma la zucca continua a fare le bizze. A Wimbledon, dove è socio honoris causa, Hewitt chiede al clan Tomic di allenarsi insieme in vista del suo ottavo contro Stepanek. Il team di Bernie, che sta per affrontare l'indiano Sitaram nel secondo turno del torneo junior, risponde no e non aggiunge neanche grazie. Anzi, specifica che Rusty è inadeguato per Tomic. L'Australia si chiede se il pupo ci fa o ci è, poi scopre che dietro alla presa di posizione c'è John e ritira la domanda. E c'è John anche a gennaio 2010, quando il team Tomic prende a brutto muso la direzione dell’Australian Open perché il match di Bernie contro Cilic viene programmato in seconda serata sulla Rod Laver Arena, si protrae per quattro ore e il pargolo finisce sotto la doccia dopo le 2 di notte. Ivica minaccia Craig Tiley e Tennis Australia di riportare il gioiellino da dove è venuto, in Croazia. In compenso, nella settimana che segue la sfuriata il ragazzino si iscrive al challenger di consolazione organizzato in Tasmania, dove parte dalle quali, azzecca 7 partite in 9 giorni e conquista il secondo titolo della categoria. Bernie does Burnie, e amici come prima.

A certificare i progressi atletici e tecnici, a marzo Tomic debutta anche con la maglia verdeoro. John Fitzgerald lo lancia nella mischia in Coppa Davis, consentendogli di ritoccare il primato di John Alexander, esordiente nel '68 a 17 anni, 5 mesi e 23 giorni. In realtà nessuno aveva fatto i conti con un certo Viv McGrath, che nel 1933 aveva 51 giorni meno di Bernie quando aveva rappresentato per la prima volta il suo Paese nella competizione. Ma dopo tutto quello era un altro mondo, il torneo si chiamava ancora International Lawn Tennis Challenge, e se l'Australia aveva perso la finale di Wimbledon contro la Gran Bretagna era stata colpa di Viv e di quei due singolari buttati via contro Fred Perry e Bunny Austin. E poi che nome è, Viv? Insomma, Bernie si autoassegna anche questo record a tavolino. Poi, una volta sul duro di Melbourne Park, incrocia una vecchia conoscenza, il taiwanese giuggiolone. A riprova del fatto che dovevo cambiare mestiere, oltre che emisfero, Yang Tsung-hua rimedia una scoppola senza appello. Finisce 6-2 6-2 6-1 per Tomic, perché l'asiatico è sempre il pacioccone di un tempo, mentre adesso i colpi dell'aussie fanno male. La mobilità va di pari passo con lo sviluppo cerebrale, ok, ma il dritto è anticipato come non se ne vedevano dal millennio scorso, il rovescio varia alla bisogna da flat a slice, da top a back, e il servizio è una mattonella che viene giù da piani sempre più alti.
 
Bernie ha superato il metro e novanta. E in quel 2011, da numero 158 del ranking, raccoglie i quarti a Wimbledon in una due-settimane di grazia durante la quale spazza via Davydenko, Soderling e Malisse e strappa pure un set a Djokovic. Il che, in quell'annata, è un po' come scalare il Mortirolo in retromarcia. L'ultimo ad aver fatto tutta quella strada a Londra in età così verde era stato Boris Becker un quarto di secolo prima. Vuoi vedere che sono davvero finiti i tempi cupi? La stampa australiana gongola, tornando a sfornare la retorica del figliol prodigo e coniando un nuovo soprannome, A-Tomic (per capire questa c'ho messo più di tonic ma meno di tedoforo). Con la C dura, però, perché altrimenti il gioco di parole si perde. In realtà con la C dura le controindicazioni sono altre. Ai telecronisti capita di sfogliare una margherita che va da Djokovic a Cilic, da Raonic a Tipsarevic, da Karlovic a mezza WTA e di pronunciare tutti con una certa sicumera. Poi succede che sbuca Bernie e son dolori. Dopo una pausa di riflessione, dal cilindo del telecronista esce fuori ‘sto Tomik. Così, senza un perché.
  
Gli orizzonti di gloria sembrano schiudersi davvero, in quel 2011. A-Tomic supera anche Wawrinka in Davis e un top ten come Mardy Fish a Shanghai, quindi chiude la stagione al 42mo posto, come il più giovane top 100 in circolazione. Il ragazzo continua a crescere, in classifica e in altezza, perché  dopo tutto è ancora un teen-ager. Il che non costituisce un'attenuante quando organizza una scazzottata coi compagni di scuola, ma diventa un'aggravante se la polizia lo becca alla guida di una fuoriserie. E cose del genere Bernie le fa in media ogni luna piena, con picchi di tre ragazzate nella stessa mattinata, il 26 gennaio 2012. A quattro anni e un giorno dal successo junior a Melbourne Park, la stradale di Broadbeach lo becca infrangere il codice 3 volte di fila con la sua BMW M3. Arancione, per la cronaca. Una bestia da pista a 8 cilindri da 140mila euro e che sfonderebbe facilmente il tetto dei 300 all'ora se non fosse dotata di un chip che ne frena gli ardori. Peccato che con la L di learner, che poi sta per la P di principiante, Bernie possa guidare solo per fare pratica, accompagnato da un adulto, meglio se al volante di una Bianchina. Invece quando la terza pattuglia gli intima lo stop, il giovanotto fa il finto tonto, sgomma verso casa e ci si barrica dentro. Quando le forze dell'ordine citofonano a villa Tomic, Ivica risolve la questione a modo suo: prima riempiendo i tutori della legge di improperi, poi, quando gli agenti battono in ritirata, convocando l'unico giornalista di fiducia e accusando gli uomini in divisa di comportamento 'non-Australiano'. Cioé razzista. Visto che quel giorno si celebra l'Australia Day e siamo tutti più buonisti, Bernie se la cava con una multa, con l'azzeramento dei punti sulla patente e con un buffetto dell'opinione pubblica. È giovane - dicono.

Talmente giovane che ovviamente ci ricasca. Ad ottobre pesta a sangue un amico, e a gennaio finisce di nuovo nelle maglie della stradale, pescato mentre guida una Ferrari (gialla, perdìo) 18 km all'ora sopra il limite. Una leggerezza che gli costa la patente e alla quale Tomic risponde accusando i media di alimentare campagne d'odio contro di lui. In un'escalation di originalità, l'anno seguente finisce immortalato in un locale della Gold Coast mentre festeggia la fine della scuola avvinghiato a due tizie che fanno la lap dance, quindi completa la serie in una cella del carcere di Miami, dove un paio d'anni più tardi viene portato semi ubriaco, dopo aver resistito all'arresto e aver minacciato un agente. Di quella sera gli resta una una multa di 10.000 dollari, una foto segnaletica a torso nudo e un avvertimento: al prossimo sgarro puoi scordarti il visto d'ingresso negli USA. Bernie non fa una piega, troppo sbronzo per ribattere.
Per il computer Tomic è uno dei primi 30 giocatori del mondo, perché tra una birra e un dito medio il nostro continua a fare il tennista, occasionalmente benino. E se piano piano arriva a contenere le marachelle extra moenia, dal 2012 aumentano le uscite di senno sul campo. Il primo assaggio di quella che diventerà la specialità della casa, Bernie lo offre agli Us Open. Roddick, che ha scelto New York per appendere la racchetta al chiodo, si ritrova impacchettato come regalo di addio un set, il terzo, nel quale Tomic ottiene 5 punti e i fischi dei 22mila dell'Arthur Ashe. Il tanking, gli anglo lo chiamano così, spinge Ivica ad abbandonare gli spalti e porta McEnroe a bollare l'australiano come patetico. Ne fa le spese tal Will Swanton, il reporter della Reuters che in sala stampa gli chiede conto della sciolta e al quale Bernie domanda nome e datore di lavoro, freddandolo con una stilettata da Donnie Brasco de Noantri: "Mi ricorderò di te".

Rafter, promosso nel frattempo parafulmine della boy band aussie, predica calma e sangue freddo, strombazza ai quattro venti che il talento è da top 10 e assicura che lavoreranno insieme per resettare il cervellone. Alla faccia dei proclami, però, la pantomima si ripete. Prima a Shanghai - quando Bernie dà l'85% contro Florian Mayer - poi a Basilea, quando contro Youzhny la percentuale crolla. Di bagel in bagel, a fine anno Tomic si ritrova scavalcato in classifica da Matosevic, che chiude il 2012 in testa al ranking nazionale. Tra i meriti storici di Bernie c'è anche quello di aver incoronato l'unico numero 1 della storia del tennis aussie che – parole sue - può prendere il tram in santa pace, tanto non lo riconosce nessuno. Marinko ringrazia, Tennis Australia no. Anzi, il cocktail di accidia, risultati anemici e comportamenti anti-sportivi spinge il consiglio federale a ritentare la carta del muro-contro-muro, a razionargli le vettovaglie e a sospenderlo dalla Davis per scarsa professionalità. Una punizione che Bernie accetta in silenzio, probabilmente stappando champagne, sicuramente in compagnia della polizia della Gold Coast, che lo pizzica di nuovo in flagranza di reato e con un tasso alcolemico fuorigioco.
Quando meno te lo aspetti, il 2013 offre un Tomic tirato a lucido, che con uno scatto d'orgoglio vince 10 partite di fila, asfalta Djokovic a Perth, vince il torneo di Sydney e si presenta allo showdown contro Federer, al terzo turno dell'Australian Open, con qualche speranziella fondata. A 24 ore dalla sfida, Bernie fa notare che il paragone tra i due regge eccome: a 20 anni e 3 mesi anche lo svizzero aveva messo la firma su un solo titolo ATP. Con la differenza che io - aggiunge Tomic - ho vinto di più a livello juniores. Sì, vabbé. Il giorno seguente, Roger lo rimette a cuccia con una prestazione monstre, e Bernie va di nuovo in tilt, collezionando da febbraio a dicembre 12 k.o. al primo turno nei 22 tornei ai quali si iscrive. Un filotto che gli vale un nuovo nomignolo, The Tank Engine, la macchina da sciolte, perché la serie di pomeriggi storti, di partite a mezzo servizio, di soliloqui melodrammatici e di gratuiti sparati sui teloni è lunga, variopinta e infinitamente triste.

Da quando l’uomo ha inventato la racchetta, i bad boys del tour trasudano carisma e adrenalina, danno spettacolo e fanno discutere. Nel migliore dei casi vengono amati, nel peggiore si rendono interessanti. Bernie no. Solipsista e indolente, musone e apatico, polemico e inespressivo, Tomic non ride mai e sorride ancora meno. Non sa esaltare quando vince e non è ‘sto granché da vedere neanche nei giorni di grazia. Un sondaggio tra gli appassionati rivela che solo Rafa lo precede nella classifica dei giocatori più odiati. Solo che in un caso è fear, nell'altro loathe. Alla gente, Bernard Tomic sta chiaramente sul gargarozzo. E altrettanto chiaramente a lui non può fregare di meno. Un'antipatia che non si ferma né ai confini nazionali né di fronte ai guai fisici. A gennaio 2014, quando esce dalla Rod Laver Arena zoppicando dopo aver perso il primo set contro Nadal, il pubblico lo sommerge di booo. Inevitabili ma per una volta ingenerosi, perché l'infortunio è serio, richiede un'operazione all'anca e due settimane di stampelle. Tomic torna a familiarizzare col tennis tre settimane più tardi, un pomeriggio di metà febbraio. Lo so perche' sto remando sul campo 17 di Melbourne Park quando Bernie - ancora mezzo sciancato - mi passa accanto, accenna un saluto, si sfila la maglietta e si sistema su quello attiguo. Assieme a lui c'è John, che impugna una Radical come fosse un crick, punta i piedi sulla riga del servizio e abbozza uno scambio col figlio. Nel senso che se arriva sulla traiettoria di Bernie bene, altrimenti avanti la prossima pallina. John Tomic aveva sempre raccontato di essersi costruito un bagaglio professionale fotocopiando decine di manuali, parlando con centinaia di allenatori, visionando migliaia di clip su Youtube. In tutto ciò la racchetta non veniva mai citata. E a giudicare dal grado di familiarità tra i due, quello aveva tutta l'impressione di essere uno dei loro primi incontri ravvicinati. Eppure John Tomic stava allenando il quarantesimo tennista più forte del mondo, palleggiando né più né meno come farebbe mia nipote. Forte di allenamenti del genere, il 20 marzo Bernie prende una sveglia epocale. E la notizia mi sorprende solo fino ad un certo punto.
Tomic non sarà ricordato tanto come uno dei talenti più precocemente fioriti, sprecati e implosi, ma come il tizio che ha preso una stesa in 28 minuti, perdendo a Miami contro Nieminen nel tempo di uno spritz con stuzzichini. La partita piu rapida mai vista nel circuito va giù così, con un primo set durato 780 secondi, compresi tre cambi campo e le pause asciugamano. Roba che al confronto Graf-Zvereva è stata una mezza maratona.

Oddio, a dirla tutta Bernie verrà ricordato anche come quello che ha dato a Federer del vecchio, a Kyrgios del cazzaro, a Rafter della marionetta, a Hewitt della pippa e a Tennis Australia dell'azienda inetta, ingrata e paramafiosa, accusandola di non sovvenzionare l'attività della sorellina per punire indirettamente lui e il padre. E guai a fargli notare che prima di diventare semifinalista junior all’Australian Open 2016 Saretta si era distinta solo per la rapidità con cui ingurgitava bomboloni alla crema. E ancora, verrà ricordato come quello che a Miami ha chiesto al giudice di sedia di far allontanare il padre-coach, che dalla tribuna gli stava frantumando gli zebedei al quadrato, in quanto padre e in quanto coach. O come quello il cui babbo-allenatore ha preso a capocciate lo sparring partner fracassandogli il setto nasale e lasciandolo sanguinante su un marciapiede di Madrid. O come quello che ha fatto sgomberare un club per usufruire dei campi e poi s'è rifiutato di pagare i 20 dollari dell'affitto perché voi non sapete chi sono io. O come quello che è stato sospeso da Davis, Olimpiadi e ancora Davis. E che in un momento di lucidità si è dato pubblicamente del ritardato.


Soprattutto, Bernie verrà ricordato come il profeta del tanking, l'uomo che ha dedicato il 2016 a dimostrare che la sciolta conclamata puo' essere sdoganata. Iniziando a Sydney, dove Tomic getta la spugna in mondovisione appena viene a conoscenza del tabellone dell’Australian Open. Poco importa che fosse in campo. Ok, dietro l'angolo c'è uno Slam, ma l'Apia International lo hai vinto in passato, sei  testa di serie numero 1 e potresti ripeterti. Ok, causa pioggia dovresti giocare due partite in un giorno, ma stai disputando un quarto con Gabashvili, mica contro Agassi. Insomma, un dibattito sarebbe pure proponibile. Siamo adulti e navigati, abbiamo accettato che un Mondiale si vince anche con la mano de Dios o dando della zoccola alla sorella di Zidane, cosa vuoi che sia un tank fatto bene in un ATP 250? Invece Bernie prima intavola con Lahyani una discussione surreale, nella quale spiega che il draw di Melbourne è troppo invitante e che lui punta a fare strada all’Australian Open mica lì, mentre l'altro - il confessore di sedia - gli ricorda che ci sarebbero un regolamento, un codice etico, che quelle sagome sugli spalti sono suoi connazionali e che nella circostanza hanno pure pagato il biglietto. Niente da fare, Bernie si fa prendere a randellate, getta la spugna e si presenta in conferenza con quattro scuse, tutte diverse. Dall'intossicazione alimentare alla nottata in bianco, dallo sforzo fisico ad una delle piaghe del Nuovo Galles del Sud, il traffico. A Hewitt spunta il primo capello bianco. Alla fine, il tabellone agevole Tomic lo sfrutta pure. A Melbourne raggiunge gli ottavi come da copione, intasca 193mila dollari, ordina una nuova Lamborghini (gialla, aridaje) e buonanotte.
Al risveglio non è cambiato niente, anzi. A Quito mugugna che dovrebbe essere a Miami a far ruggire la sua Ferrari, non sul mattone tritato ecuadoriano a farsi seppellire di aces da Lorenzi. Al Foro impreca contro l'inventore dei campi in terra e resiste giusto 3 games contro Paire. A Madrid impugna la racchetta dalla testa del telaio sul match point per Fognini, poi alla stampa dichiara che è ovvio che di quel match non gliene freghi nulla, dopo tutto lui ha 23 anni e vale 10 milioni di dollari, cosa vuoi che gli cambi un secondo turno di un Master 1000? Infine, a New York minaccia di infilare in bocca ad uno spettatore una pallina e un mazzo di banconote. E se il campionario si ferma qui, è solo perché dopo l'UsOpen Bernie gioca 4 partite, ne perde 3 e chiude il 2016 in gloria, con un ritiro. Il quarto della stagione, il quattordicesimo da pro. In questo, sì, Bernard Tomic ha davvero tutto per diventare uno dei primi cinque. Di tutti i tempi.

(tratto da Il Tennis Italiano - Febbraio 2017)


POSTILLA

Lo ammetto, la faccenda della C dura a cazzodicane mi aveva mandato in loop. La volta in cui la voce autorevole di Channel 7 aveva trasformato Lajovic in  'Lagióvik', pur di non lasciare Bernie troppo solo con suo cognome storpiatoho deciso di scendere in campo per cambiare il mondo. Ai colleghi australiani già inviavo sporadicamente delle educatissime mail nelle quali spiegavo che noi diciamo Pellé, non Péle, Nibali, non Nibàlli, e che molto in teoria in italiano Ricciardo si pronuncia Ricciardo, Dellavedova Dellavedova e così via. Ma a quel punto, animato dal sacro fuoco della Verità, e senza più nulla da perdere, quando è capitata l'occasione ho sottoposto il quesito che mi toglieva il sonno al diretto interessato, il quale ogni tanto bazzicava i corridoi di Melbourne Park fuori stagione. 
"Bernie, mi spieghi perché diamine gli australiani ti chiamano Tómik?". Gliel'ho buttata lì. "Domandalo a lui" mi ha risposto. Mi sono voltato nella direzione indicata dal dito di Tomic e ho urtato contro qualcosa. La consistenza era quella di un trattore, solo quando ho ripreso coscienza ho capito che era una cassa toracica. In cima c'era una testa rasata dalla quale due occhietti incazzati mi scrutavano con poca amorevolezza e tanta insofferenza. Se il foglio excel compilato a beneficio del governo australiano non inganna, negli ultimi 20 anni ho messo piede in 137 Stati riconosciuti dall'ONU e in una mezza dozzina di posti abusivi, tipo la Transnistria. Ho trascorso 1500 giorni con lo zaino in spalla, il che significa un sacco di porti e stazioni, bus e camionette, suq e baraccopoli, autostop e tende piazzate dove capita. Nonostante faccia di tolla, zoom ficcanaso e tendenze autodistruttive, non ho mai beccato un cartone sul naso. Vicino sì, ma mai proprio in pieno. Ebbene, nella top five delle occasioni in cui ho sentito che un destro stava per atterrare sul mio muso, quegli istanti davanti a John Tomic c'entrano a pie' pari. Il pugno di Ivica era serrato, disperatamente bisognoso di scaricare la sovraproduzione di energia su un corpo estraneo.
E l'unico nei paraggi era il mio. 
"Dad!". Una voce da qualche parte ha spezzato l’incantesimo.
"Che ne so io, perché. Chiedilo agli australiani. È colpa loro" mi ha risposto John Tomic con lo stesso tono col quale avrebbe potuto dire "Togliti di torno, pidocchio".
Ci rimasi di sasso. Un omone che nella sua vita aveva preso a male parole poliziotti e a capocciate uno sparring per molto meno, lasciava che un Paese intero gli storpiasse nome, cognome e identità, quando gli sarebbe bastato alzare il telefono per mettere tutto a posto.
È una cosa tutta mia, lo so, ma mi turbò. E a ripensarci mi turba ancora. 
In tutto questo, a Bernard Tomic devo probabilmente un paio di punti di sutura.