mercoledì 14 dicembre 2016

Father and son

Me lo ricordo bene, il giorno in cui Tomic è diventato il più giovane tennista della storia a vincere l’Australian Open junior. Aveva 15 anni e tre mesi, Bernie, era la vigilia della festa nazionale del 2008 e il governo federale stava per chiedere scusa agli aborigeni, ai nativi arrivati sull’isola nel Paleolitico e che per la legge del Commonwealth fino agli Anni 60 contavano come i koala. Ma con qualche diritto in meno sulla prole. Anche a Melbourne Park si respirava un ponentino da volemose bene, o forse era solo l'ennesima impennata del PIL, cresciuto del 5% alla faccia della recessione che incombeva sul resto del globo. Da una parte del Pacifico i mutui subprime tiravano giù Lehman Brother, Goldman Sachs e tutto il cucuzzaro, dall'altra Canberra distribuiva soldi a fondo perduto ai contribuenti, per evitare che la crisi entrasse nel linguaggio della gente e il timore delle conseguenze strisciasse nelle loro case. Nel quadretto alla Anne Geddes, l'unico settore nel quale l'Australia sembrava precipitata nella grande depressione era quello della racchetta: i canguri avevano chiuso il 2007 senza giocatori tra i primi venti, in Davis erano bastati Vliegen e Rochus per obbligarli ai play off e due pischelli come Djokovic e Tipsarevic per spedirli fuori dal World Group. L'exploit di Tomic cadeva a fagiolo per digerire la seconda retrocessione in cent'anni e per mettersi alle spalle il momento più basso dell'ultimo mezzo secolo di tennis.

Me lo ricordo bene, dicevo, perché c'ero. Ma siccome di tennis non ho mai capito una mazza, in quella finalina avevo preso in simpatia lo sfidante. Non era né gusto dell'orrido né Schadenfreude, il mio. È che il Wonder Boy del Queensland mi risultava insulso come i palazzoni della sua Gold Coast, legnoso come i suoi movimenti e piatto come il suo dritto. Al contrario dell'altro, tale Yang Tsung-hua. Un taiwanese rubicondo, sovrappeso e con un discreto braccino, che con quel faccione da Doraemon ispirava simpatia, serviva a 215 all'ora e aveva tenuto a bada il piccolo aussie per un set e mezzo, prima di fumarsi un break di vantaggio nel secondo ed evaporare nel terzo nel giro di 20 minuti. Bernie e il suo smanicato erano finiti la sera stessa sulle cronache nazionali, dove lo sbarbatello nato a Stoccarda era stato etichettato come - nell'ordine - prodigioeredetedoforo (nel senso di chi raccoglie il testimone - ci misi un po' a capirlo), un tonic (questa invece la colsi al volo) per lo svaporato tennis down under. Il carico da undici l'aveva lanciato Giorgio Di Palermo, col quale avevo visto il match a spizzichi e bocconi. "Questo ha tutto per diventare top 5" mi disse il membro del board ATP. Tutto. A parte qualche sinapsi, forse. E un coach.

Quello di Bernie era da sempre babbo Ivica, detto John perché gli australiani sono allergici a qualsiasi idioma barbaro, e quando azzeccano un termine ne storpiano il senso. Per cui chiamano babushka la matrioska, confetti i coriandoli, latte il caffelatte e via dicendo. Croato emigrato in Germania prima che la guerra nei Balcani facesse danni, trasferito dall'altro capo del mondo quando il primogenito aveva 3 anni, John Tomic aveva trovato un impiego come tassista. Part time, perché tanto a portare la pagnotta a casa ci pensava la moglie Adisa, e poi perché così gli restava tempo per coltivare ambizioni da Richard Williams. Progetti che avevano cominciato a prendere forma la mattina in cui father and son erano capitati davanti ad un garage sale, la vendita delle cianfrusaglie di chi svuota il ripostiglio o sta traslocando. Davanti a tutto quel bendiddio, Bernie aveva indicato un racchetta. "Voglio questa", aveva bisbigliato. La leggenda vuole che John l'abbia pagata con una moneta da mezzo dollaro, ma la conferma è impossibile - Ivica grugnisce tanto ma parla poco, e mai con la stampa. Il resto è cronaca: Bernie muove i primi passi al Queen's Park Tennis Club di Southport, a 12 anni vince il primo dei suoi due Orange Bowl, a 13 sale in capo al ranking dei suoi coetanei, sempre a 13 anni porta a casa 23 partite di fila e un paio di titoli ITF tra gli under 18, a 14 anni fa il bis in Florida ed entra di diritto nel tabellone principale di uno Slam junior, quello di casa. Rivelandosi - anche in questo - il più precoce tennista di sempre. 
  
Alle porte dei 15 anni, Tomic guida i compagni alla conquista della Coppa Davis junior nelle finali di Reggio Emilia contro l'Argentina, quindi firma con l'IMG un triennale a sei cifre, seguito da un contratto con la Nike e da un accordo con la Head. Infine, quindici giorni prima di incidere il proprio nome sulla coppa junior dell’Australian Open, Bernie mette in saccoccia anche i primi due punti ATP, annullando cinque match point a Jimmy Wang nel primo turno delle qualificazioni dei grandi. Ai giornalisti, poi, spiega di voler frantumare il primato di John Alexander, debuttando in Davis prima dei 17 anni e racconta senza mezzi termini di puntare dritto al vertice. Affinché non si pensi che i suoi sogni siano solide realtà, Tomic junior aggiunge che entro i 20 anni vincerà un major, uno qualsiasi, seguito in rapida successione dagli altri tre Slam. Infine specifica che sta lavorando per ritrovarsi tra le mani un servizio alla Ivanisevic e i colpi da fondo alla Federer, ma che la mentalità vincente è già paragonabile a quella di Sampras. Quanto agli attributi - che ve lo dico a fa' - al momento siamo già ai livelli di Hewitt. L'ingrendiente non pervenuto è sempre quello. L'allenatore.

Eppure anche lì il buongiorno si vede molto prima dell'alba. A dicembre, quando nel ranking dei piccoli balla tra la casella numero 2 e la numero 5, e nella classifica dei big è salito al 774, Tomic abbandona il Future di Wangara durante un match di secondo turno contro Matosevic. Nel Western Australia è l'estate più calda dell'ultimo trentennio, ma il problema non è l’afa né l’avversario ma siede al suo angolo. Con Bernie sotto 6-2 3-1, John perde la pazienza con un paio di giudici di linea, che a suo dire ignorano "una dozzina di falli di piede" dell'altro australiano di matrice balcanica. Quel diavolo di un Matosevic - sempre secondo John - serve con entrambi i piedi "10-15 centimetri dentro al campo" e la fa sempre franca. Morale: Ivica schiuma rabbia, scomunica tutti gli ufficiali e trascina Bernie fuori dall'impianto. Il 2008 di Tomic si chiude così, con una squalifica dell'ITF e un ritiro che non sarà né il più plateale né l'ultimo. L'Australia, che sperava di aver trovato l'erede di Philippoussis, si ritrova tra le mani un cucciolo di Koellerer. Col padre a carico.

Nonostante l'incidente di percorso, l'anno seguente Bernie gioca bene le sue fiches su tre tavoli e fa cassa dappertutto. Titolo junior allo Us Open, primo successo challenger a Melbourne e prima vittoria nel main draw di uno Slam. Sempre sul beneamato plexicushion di casa, vittima un Potito Starace formato Babbo Natale. Tomic ha 16 anni e 3 mesi, scippa al campano tre tie break su tre, mette un'altra crocetta alla casella record all time e a fine 2009 può annunciare che è finito il tempo delle mele e arrivato quello di fare sul serio. La classifica c'è, la stoffa bene o male anche, ma la zucca continua a fare le bizze. A Wimbledon, dove è socio honoris causa, Hewitt chiede al clan Tomic di allenarsi insieme in vista del suo ottavo contro Stepanek. Il team di Bernie, che sta per affrontare l'indiano Sitaram nel secondo turno del torneo junior, risponde no e non aggiunge neanche grazie. Anzi, specifica che Rusty è inadeguato per Tomic. L'Australia si chiede se il pupo ci fa o ci è, poi scopre che dietro alla presa di posizione c'è John e ritira la domanda. E c'è John anche a gennaio 2010, quando il team Tomic prende a brutto muso la direzione dell’Australian Open perché il match di Bernie contro Cilic viene programmato in seconda serata sulla Rod Laver Arena, si protrae per quattro ore e il pargolo finisce sotto la doccia dopo le 2 di notte. Ivica minaccia Craig Tiley e Tennis Australia di riportare il gioiellino da dove è venuto, in Croazia. In compenso, nella settimana che segue la sfuriata il ragazzino si iscrive al challenger di consolazione organizzato in Tasmania, dove parte dalle quali, azzecca 7 partite in 9 giorni e conquista il secondo titolo della categoria. Bernie does Burnie, e amici come prima.

A certificare i progressi atletici e tecnici, a marzo Tomic debutta anche con la maglia verdeoro. John Fitzgerald lo lancia nella mischia in Coppa Davis, consentendogli di ritoccare il primato di John Alexander, esordiente nel '68 a 17 anni, 5 mesi e 23 giorni. In realtà nessuno aveva fatto i conti con un certo Viv McGrath, che nel 1933 aveva 51 giorni meno di Bernie quando aveva rappresentato per la prima volta il suo Paese nella competizione. Ma dopo tutto quello era un altro mondo, il torneo si chiamava ancora International Lawn Tennis Challenge, e se l'Australia aveva perso la finale di Wimbledon contro la Gran Bretagna era stata colpa di Viv e di quei due singolari buttati via contro Fred Perry e Bunny Austin. E poi che nome è, Viv? Insomma, Bernie si autoassegna anche questo record a tavolino. Poi, una volta sul duro di Melbourne Park, incrocia una vecchia conoscenza, il taiwanese giuggiolone. A riprova del fatto che dovevo cambiare mestiere, oltre che emisfero, Yang Tsung-hua rimedia una scoppola senza appello. Finisce 6-2 6-2 6-1 per Tomic, perché l'asiatico è sempre il pacioccone di un tempo, mentre adesso i colpi dell'aussie fanno male. La mobilità va di pari passo con lo sviluppo cerebrale, ok, ma il dritto è anticipato come non se ne vedevano dal millennio scorso, il rovescio varia alla bisogna da flat a slice, da top a back, e il servizio è una mattonella che viene giù da piani sempre più alti.
 
Bernie ha superato il metro e novanta. E in quel 2011, da numero 158 del ranking, raccoglie i quarti a Wimbledon in una due-settimane di grazia durante la quale spazza via Davydenko, Soderling e Malisse e strappa pure un set a Djokovic. Il che, in quell'annata, è un po' come scalare il Mortirolo in retromarcia. L'ultimo ad aver fatto tutta quella strada a Londra in età così verde era stato Boris Becker un quarto di secolo prima. Vuoi vedere che sono davvero finiti i tempi cupi? La stampa australiana gongola, tornando a sfornare la retorica del figliol prodigo e coniando un nuovo soprannome, A-Tomic (per capire questa c'ho messo più di tonic ma meno di tedoforo). Con la C dura, però, perché altrimenti il gioco di parole si perde. In realtà con la C dura le controindicazioni sono altre. Ai telecronisti capita di sfogliare una margherita che va da Djokovic a Cilic, da Raonic a Tipsarevic, da Karlovic a mezza WTA e di pronunciare tutti con una certa sicumera. Poi succede che sbuca Bernie e son dolori. Dopo una pausa di riflessione, dal cilindo del telecronista esce fuori ‘sto Tomik. Così, senza un perché.
  
Gli orizzonti di gloria sembrano schiudersi davvero, in quel 2011. A-Tomic supera anche Wawrinka in Davis e un top ten come Mardy Fish a Shanghai, quindi chiude la stagione al 42mo posto, come il più giovane top 100 in circolazione. Il ragazzo continua a crescere, in classifica e in altezza, perché  dopo tutto è ancora un teen-ager. Il che non costituisce un'attenuante quando organizza una scazzottata coi compagni di scuola, ma diventa un'aggravante se la polizia lo becca alla guida di una fuoriserie. E cose del genere Bernie le fa in media ogni luna piena, con picchi di tre ragazzate nella stessa mattinata, il 26 gennaio 2012. A quattro anni e un giorno dal successo junior a Melbourne Park, la stradale di Broadbeach lo becca infrangere il codice 3 volte di fila con la sua BMW M3. Arancione, per la cronaca. Una bestia da pista a 8 cilindri da 140mila euro e che sfonderebbe facilmente il tetto dei 300 all'ora se non fosse dotata di un chip che ne frena gli ardori. Peccato che con la L di learner, che poi sta per la P di principiante, Bernie possa guidare solo per fare pratica, accompagnato da un adulto, meglio se al volante di una Bianchina. Invece quando la terza pattuglia gli intima lo stop, il giovanotto fa il finto tonto, sgomma verso casa e ci si barrica dentro. Quando le forze dell'ordine citofonano a villa Tomic, Ivica risolve la questione a modo suo: prima riempiendo i tutori della legge di improperi, poi, quando gli agenti battono in ritirata, convocando l'unico giornalista di fiducia e accusando gli uomini in divisa di comportamento 'non-Australiano'. Cioé razzista. Visto che quel giorno si celebra l'Australia Day e siamo tutti più buonisti, Bernie se la cava con una multa, con l'azzeramento dei punti sulla patente e con un buffetto dell'opinione pubblica. È giovane - dicono.

Talmente giovane che ovviamente ci ricasca. Ad ottobre pesta a sangue un amico, e a gennaio finisce di nuovo nelle maglie della stradale, pescato mentre guida una Ferrari (gialla, perdìo) 18 km all'ora sopra il limite. Una leggerezza che gli costa la patente e alla quale Tomic risponde accusando i media di alimentare campagne d'odio contro di lui. In un'escalation di originalità, l'anno seguente finisce immortalato in un locale della Gold Coast mentre festeggia la fine della scuola avvinghiato a due tizie che fanno la lap dance, quindi completa la serie in una cella del carcere di Miami, dove un paio d'anni più tardi viene portato semi ubriaco, dopo aver resistito all'arresto e aver minacciato un agente. Di quella sera gli resta una una multa di 10.000 dollari, una foto segnaletica a torso nudo e un avvertimento: al prossimo sgarro puoi scordarti il visto d'ingresso negli USA. Bernie non fa una piega, troppo sbronzo per ribattere.
Per il computer Tomic è uno dei primi 30 giocatori del mondo, perché tra una birra e un dito medio il nostro continua a fare il tennista, occasionalmente benino. E se piano piano arriva a contenere le marachelle extra moenia, dal 2012 aumentano le uscite di senno sul campo. Il primo assaggio di quella che diventerà la specialità della casa, Bernie lo offre agli Us Open. Roddick, che ha scelto New York per appendere la racchetta al chiodo, si ritrova impacchettato come regalo di addio un set, il terzo, nel quale Tomic ottiene 5 punti e i fischi dei 22mila dell'Arthur Ashe. Il tanking, gli anglo lo chiamano così, spinge Ivica ad abbandonare gli spalti e porta McEnroe a bollare l'australiano come patetico. Ne fa le spese tal Will Swanton, il reporter della Reuters che in sala stampa gli chiede conto della sciolta e al quale Bernie domanda nome e datore di lavoro, freddandolo con una stilettata da Donnie Brasco de Noantri: "Mi ricorderò di te".

Rafter, promosso nel frattempo parafulmine della boy band aussie, predica calma e sangue freddo, strombazza ai quattro venti che il talento è da top 10 e assicura che lavoreranno insieme per resettare il cervellone. Alla faccia dei proclami, però, la pantomima si ripete. Prima a Shanghai - quando Bernie dà l'85% contro Florian Mayer - poi a Basilea, quando contro Youzhny la percentuale crolla. Di bagel in bagel, a fine anno Tomic si ritrova scavalcato in classifica da Matosevic, che chiude il 2012 in testa al ranking nazionale. Tra i meriti storici di Bernie c'è anche quello di aver incoronato l'unico numero 1 della storia del tennis aussie che – parole sue - può prendere il tram in santa pace, tanto non lo riconosce nessuno. Marinko ringrazia, Tennis Australia no. Anzi, il cocktail di accidia, risultati anemici e comportamenti anti-sportivi spinge il consiglio federale a ritentare la carta del muro-contro-muro, a razionargli le vettovaglie e a sospenderlo dalla Davis per scarsa professionalità. Una punizione che Bernie accetta in silenzio, probabilmente stappando champagne, sicuramente in compagnia della polizia della Gold Coast, che lo pizzica di nuovo in flagranza di reato e con un tasso alcolemico fuorigioco.
Quando meno te lo aspetti, il 2013 offre un Tomic tirato a lucido, che con uno scatto d'orgoglio vince 10 partite di fila, asfalta Djokovic a Perth, vince il torneo di Sydney e si presenta allo showdown contro Federer, al terzo turno dell'Australian Open, con qualche speranziella fondata. A 24 ore dalla sfida, Bernie fa notare che il paragone tra i due regge eccome: a 20 anni e 3 mesi anche lo svizzero aveva messo la firma su un solo titolo ATP. Con la differenza che io - aggiunge Tomic - ho vinto di più a livello juniores. Sì, vabbé. Il giorno seguente, Roger lo rimette a cuccia con una prestazione monstre, e Bernie va di nuovo in tilt, collezionando da febbraio a dicembre 12 k.o. al primo turno nei 22 tornei ai quali si iscrive. Un filotto che gli vale un nuovo nomignolo, The Tank Engine, la macchina da sciolte, perché la serie di pomeriggi storti, di partite a mezzo servizio, di soliloqui melodrammatici e di gratuiti sparati sui teloni è lunga, variopinta e infinitamente triste.

Da quando l’uomo ha inventato la racchetta, i bad boys del tour trasudano carisma e adrenalina, danno spettacolo e fanno discutere. Nel migliore dei casi vengono amati, nel peggiore si rendono interessanti. Bernie no. Solipsista e indolente, musone e apatico, polemico e inespressivo, Tomic non ride mai e sorride ancora meno. Non sa esaltare quando vince e non è ‘sto granché da vedere neanche nei giorni di grazia. Un sondaggio tra gli appassionati rivela che solo Rafa lo precede nella classifica dei giocatori più odiati. Solo che in un caso è fear, nell'altro loathe. Alla gente, Bernard Tomic sta chiaramente sul gargarozzo. E altrettanto chiaramente a lui non può fregare di meno. Un'antipatia che non si ferma né ai confini nazionali né di fronte ai guai fisici. A gennaio 2014, quando esce dalla Rod Laver Arena zoppicando dopo aver perso il primo set contro Nadal, il pubblico lo sommerge di booo. Inevitabili ma per una volta ingenerosi, perché l'infortunio è serio, richiede un'operazione all'anca e due settimane di stampelle. Tomic torna a familiarizzare col tennis tre settimane più tardi, un pomeriggio di metà febbraio. Lo so perche' sto remando sul campo 17 di Melbourne Park quando Bernie - ancora mezzo sciancato - mi passa accanto, accenna un saluto, si sfila la maglietta e si sistema su quello attiguo. Assieme a lui c'è John, che impugna una Radical come fosse un crick, punta i piedi sulla riga del servizio e abbozza uno scambio col figlio. Nel senso che se arriva sulla traiettoria di Bernie bene, altrimenti avanti la prossima pallina. John Tomic aveva sempre raccontato di essersi costruito un bagaglio professionale fotocopiando decine di manuali, parlando con centinaia di allenatori, visionando migliaia di clip su Youtube. In tutto ciò la racchetta non veniva mai citata. E a giudicare dal grado di familiarità tra i due, quello aveva tutta l'impressione di essere uno dei loro primi incontri ravvicinati. Eppure John Tomic stava allenando il quarantesimo tennista più forte del mondo, palleggiando né più né meno come farebbe mia nipote. Forte di allenamenti del genere, il 20 marzo Bernie prende una sveglia epocale. E la notizia mi sorprende solo fino ad un certo punto.
Tomic non sarà ricordato tanto come uno dei talenti più precocemente fioriti, sprecati e implosi, ma come il tizio che ha preso una stesa in 28 minuti, perdendo a Miami contro Nieminen nel tempo di uno spritz con stuzzichini. La partita piu rapida mai vista nel circuito va giù così, con un primo set durato 780 secondi, compresi tre cambi campo e le pause asciugamano. Roba che al confronto Graf-Zvereva è stata una mezza maratona.

Oddio, a dirla tutta Bernie verrà ricordato anche come quello che ha dato a Federer del vecchio, a Kyrgios del cazzaro, a Rafter della marionetta, a Hewitt della pippa e a Tennis Australia dell'azienda inetta, ingrata e paramafiosa, accusandola di non sovvenzionare l'attività della sorellina per punire indirettamente lui e il padre. E guai a fargli notare che prima di diventare semifinalista junior all’Australian Open 2016 Saretta si era distinta solo per la rapidità con cui ingurgitava bomboloni alla crema. E ancora, verrà ricordato come quello che a Miami ha chiesto al giudice di sedia di far allontanare il padre-coach, che dalla tribuna gli stava frantumando gli zebedei al quadrato, in quanto padre e in quanto coach. O come quello il cui babbo-allenatore ha preso a capocciate lo sparring partner fracassandogli il setto nasale e lasciandolo sanguinante su un marciapiede di Madrid. O come quello che ha fatto sgomberare un club per usufruire dei campi e poi s'è rifiutato di pagare i 20 dollari dell'affitto perché voi non sapete chi sono io. O come quello che è stato sospeso da Davis, Olimpiadi e ancora Davis. E che in un momento di lucidità si è dato pubblicamente del ritardato.


Soprattutto, Bernie verrà ricordato come il profeta del tanking, l'uomo che ha dedicato il 2016 a dimostrare che la sciolta conclamata puo' essere sdoganata. Iniziando a Sydney, dove Tomic getta la spugna in mondovisione appena viene a conoscenza del tabellone dell’Australian Open. Poco importa che fosse in campo. Ok, dietro l'angolo c'è uno Slam, ma l'Apia International lo hai vinto in passato, sei  testa di serie numero 1 e potresti ripeterti. Ok, causa pioggia dovresti giocare due partite in un giorno, ma stai disputando un quarto con Gabashvili, mica contro Agassi. Insomma, un dibattito sarebbe pure proponibile. Siamo adulti e navigati, abbiamo accettato che un Mondiale si vince anche con la mano de Dios o dando della zoccola alla sorella di Zidane, cosa vuoi che sia un tank fatto bene in un ATP 250? Invece Bernie prima intavola con Lahyani una discussione surreale, nella quale spiega che il draw di Melbourne è troppo invitante e che lui punta a fare strada all’Australian Open mica lì, mentre l'altro - il confessore di sedia - gli ricorda che ci sarebbero un regolamento, un codice etico, che quelle sagome sugli spalti sono suoi connazionali e che nella circostanza hanno pure pagato il biglietto. Niente da fare, Bernie si fa prendere a randellate, getta la spugna e si presenta in conferenza con quattro scuse, tutte diverse. Dall'intossicazione alimentare alla nottata in bianco, dallo sforzo fisico ad una delle piaghe del Nuovo Galles del Sud, il traffico. A Hewitt spunta il primo capello bianco. Alla fine, il tabellone agevole Tomic lo sfrutta pure. A Melbourne raggiunge gli ottavi come da copione, intasca 193mila dollari, ordina una nuova Lamborghini (gialla, aridaje) e buonanotte.
Al risveglio non è cambiato niente, anzi. A Quito mugugna che dovrebbe essere a Miami a far ruggire la sua Ferrari, non sul mattone tritato ecuadoriano a farsi seppellire di aces da Lorenzi. Al Foro impreca contro l'inventore dei campi in terra e resiste giusto 3 games contro Paire. A Madrid impugna la racchetta dalla testa del telaio sul match point per Fognini, poi alla stampa dichiara che è ovvio che di quel match non gliene freghi nulla, dopo tutto lui ha 23 anni e vale 10 milioni di dollari, cosa vuoi che gli cambi un secondo turno di un Master 1000? Infine, a New York minaccia di infilare in bocca ad uno spettatore una pallina e un mazzo di banconote. E se il campionario si ferma qui, è solo perché dopo l'UsOpen Bernie gioca 4 partite, ne perde 3 e chiude il 2016 in gloria, con un ritiro. Il quarto della stagione, il quattordicesimo da pro. In questo, sì, Bernard Tomic ha davvero tutto per diventare uno dei primi cinque. Di tutti i tempi.

(tratto da Il Tennis Italiano - Febbraio 2017)


POSTILLA

Lo ammetto, la faccenda della C dura a cazzodicane mi aveva mandato in loop. La volta in cui la voce autorevole di Channel 7 aveva trasformato Lajovic in  'Lagióvik', pur di non lasciare Bernie troppo solo con suo cognome storpiatoho deciso di scendere in campo per cambiare il mondo. Ai colleghi australiani già inviavo sporadicamente delle educatissime mail nelle quali spiegavo che noi diciamo Pellé, non Péle, Nibali, non Nibàlli, e che molto in teoria in italiano Ricciardo si pronuncia Ricciardo, Dellavedova Dellavedova e così via. Ma a quel punto, animato dal sacro fuoco della Verità, e senza più nulla da perdere, quando è capitata l'occasione ho sottoposto il quesito che mi toglieva il sonno al diretto interessato, il quale ogni tanto bazzicava i corridoi di Melbourne Park fuori stagione. 
"Bernie, mi spieghi perché diamine gli australiani ti chiamano Tómik?". Gliel'ho buttata lì. "Domandalo a lui" mi ha risposto. Mi sono voltato nella direzione indicata dal dito di Tomic e ho urtato contro qualcosa. La consistenza era quella di un trattore, solo quando ho ripreso coscienza ho capito che era una cassa toracica. In cima c'era una testa rasata dalla quale due occhietti incazzati mi scrutavano con poca amorevolezza e tanta insofferenza. Se il foglio excel compilato a beneficio del governo australiano non inganna, negli ultimi 20 anni ho messo piede in 137 Stati riconosciuti dall'ONU e in una mezza dozzina di posti abusivi, tipo la Transnistria. Ho trascorso 1500 giorni con lo zaino in spalla, il che significa un sacco di porti e stazioni, bus e camionette, suq e baraccopoli, autostop e tende piazzate dove capita. Nonostante faccia di tolla, zoom ficcanaso e tendenze autodistruttive, non ho mai beccato un cartone sul naso. Vicino sì, ma mai proprio in pieno. Ebbene, nella top five delle occasioni in cui ho sentito che un destro stava per atterrare sul mio muso, quegli istanti davanti a John Tomic c'entrano a pie' pari. Il pugno di Ivica era serrato, disperatamente bisognoso di scaricare la sovraproduzione di energia su un corpo estraneo.
E l'unico nei paraggi era il mio. 
"Dad!". Una voce da qualche parte ha spezzato l’incantesimo.
"Che ne so io, perché. Chiedilo agli australiani. È colpa loro" mi ha risposto John Tomic con lo stesso tono col quale avrebbe potuto dire "Togliti di torno, pidocchio".
Ci rimasi di sasso. Un omone che nella sua vita aveva preso a male parole poliziotti e a capocciate uno sparring per molto meno, lasciava che un Paese intero gli storpiasse nome, cognome e identità, quando gli sarebbe bastato alzare il telefono per mettere tutto a posto.
È una cosa tutta mia, lo so, ma mi turbò. E a ripensarci mi turba ancora. 
In tutto questo, a Bernard Tomic devo probabilmente un paio di punti di sutura.

martedì 6 settembre 2016

Mukiwa: A White Boy in Africa


Day 1 (Sudafrica) 
(bozze di appunti appuntati via cellulare)

1. Restare appiedati a tarda sera in una stradina di una shanty town di Johannesburg proprio mentre il tizio alla guida ha completato la frase "....capito che gente dodgy abita qui? Altro che Soweto". Ecco.

2. I rituali sono importanti. Metti le tre P del Lesotho, per esempio. Che non sono né la patata, né la palestra, né la partita. Ma pace, pioggia e prosperità. Le strette di mano non valgono se non accompagnate dal ritornello "Khotso, pula, nala". E il suono kh te lo raccomando. O metti i saluti degli autotrasportatori sudafricani che scaricano i propri figli davanti a scuola. Non sono mica terminati senza il coretto: "Give your best..." >>> "And God will do the rest!". Amen. E poi le parole, i billboards. A Maseru il benvenuto te lo dà un cartellone con l'immagine di un tizio col passamontagna nero davanti a Cheope, Chefren e Micerino. Vorrebbe mettere in guardia dalle truffe dei sistemi a piramide, l'effetto è quello di una pubblicità progresso dell'Isis. Finora il mio preferito è però il motto dell'asso-tassinari di Roma. Dice "Arrive Alive". Thanks to the dick.

3. Come regalo ho estorto un adattatore iperuniversale che pesa come la biografia di Mandela e apre le porte delle prese della corrente in 14.000 Stati. Solo che quelle sudafricane so' diverse. E quelle del Lesotho pure.
Day 0 - Come caricare un cubo di libri nel solo bagaglio a mano 

4. Il caldo, il freddo, le bufere, le mosche, le zanzare, i bushpig, i gechi, gli attacchi di panico, gli incendi, i terremoti, le Uaz, le leonesse, i topi del deserto, gli ippopotami, i boscimani, le coreane. Mai stato a corto di motivi per non dormire, in viaggio. Ma il ratto che mi sveglia due volte, mi fotte i biscotti della colazione e poi piscia e caca sugli effetti personali, mi mancava. A Semokong e' successo.

4. Un gioco delle tre carte per una sosta a Roma, quasi-cittadina universitaria del Lesotho, era obbligatorio. Che ne avrei ricavato poco era scontato. Ma perché (4a.) neanche il personale accademico sa dare informazioni, notizie, un quarcheccosa, insomma? Esistono libri sulla storia di 'sto posto? Che ci faccio con l'opuscolo rosa della National University of Lesotho (NUL, perché il marketing è tutto) che parla dell'Institute of extra Mural studies - non Rural, proprio Mural - e per toglierti il dubbio che ci fosse un refuso raffigura muratori all'opera? Perché nessuno (4b.) fa mente locale sul fatto che si chiamano come 'a Capitale, perché 'a Capitale si chiama proprio Roma e non Rome? Soprattutto (4c.) perché nessuno gira con la maglietta di Totti, cosa che mi avrebbe assicurato un'apertura su Leggo o una breve sulla Gazzetta?

5. A proposito, quante chance avevo di beccare un passaggio in auto da Semonkong a Maseru da una famiglia di geologi di via Ardeatina? 

6. La biografia autorizzata di Mandela è una palla.


Day 2-3 (Lesotho)
I went to Lesotho for 3 reasons. First, because it gained independence from the UK 55 years ago, on October 4 1966. Visiting a sovereign State is not about ticking a box, it's a matter of understanding why people are bond to their distinctive tradition and culture, why they believe their national identity deserves to be internationally recognised and are ready to fight for it.
.
Then because of my first encounter with the Basotho people. It was last century's last night, I celebrated new year's eve in Rome and I was about to sleep way too little before running the Millennium Marathon on Jan 1, 2000. Outside St Peter's Basilica I saw them: it was cold, 20 or so Basotho were warming up by wagging their heads under coned-shaped hats called mokorotlo, the symbol appearing on the national flag. It was hilarious, but I didn't have a camera. I told myself one day I would have made up for the opportunity, except I didn't even know where Lesotho was. 
.
I knew it by the time I flew to Jo'burg the second time: Lesotho is a state the size of Belgium surrounded by South Africa and it's one of the 3 enclaved countries in the world, the others being the Vatican and San Marino.
.
Speaking of mokorotlo, the third reason is all about names. The land was first ruled by king Moshoeshoe, who established the capital in a place called Butha-Buthe in the Drakensberg mountains, and who was helped by Christian missionaries in securing his kingdom's independence. One of the missionaries was a Frenchman, Joseph Gérard, who founded a town he called ROMA. It goes without saying there were reasons enough for me to go.
.
Which I did, although Roma is a rather unappealing centre with a basic University called NUL (one of the courses was 'extra mural studies' and it was about how to be a carpenter) and in town none connects Roma to Rome. For them Italy's Rome is called Rome while Roma - the only Roma they know - is Lesotho's Roma.
.
That day I moved on to Semonkong - the place of the smoke - a few hours trek away from the Maletsunyane falls. Amazingly enough, on my way back to the capital Maseru I hitched a ride and I was picked up by a Roman family. True Romans from Rome, I mean.
Tramonto su una spiaggia vicino a Praia Tofo, Mozambico

Day 13 (frontiera Sudafrica-Zimbabwe)

"Non scrivere che fai il giornalista", mi sussurra Japhet, mentre il camion che sta guidando attraversa il ponte sul Limpopo. Il secondo fiume africano tra quelli che si tuffano nell'oceano Indiano è ridotto ai minimi termini, dopo 4 anni di siccità. In compenso la temperatura è precipitata, il cielo è color tortora e minaccia un acquazzone fuori stagione.
"Studente?"
"C'è poco da ridere, credimi".
L'autotrasportatore shona di lingua ed etnia, nato a Salisbury - Rhodesia - e ora residente a Harare - Zimbabwe - che poi sono la stessa cosa con 36 anni di casini in più, si fa serio.
"Ho visto gente lasciata fuori per un mezzo commento su Mugabe".
"In genere me la cavo con 'sport commentator'. Suona meno reporter d'assalto e poi fa l'effetto di un Sironi".
"Evita"
"Ha funzionato pure in Corea del Nord..."
"Qui è meglio di no, fidati"
"Employee?"
"Troppo vago".
"Public servant?"
"Ambiguo".
Eccheccazzo.
Ormai siamo allo sportello, dall'altra parte mi aspetta un omone con un maglione grigio a coste e un buco sulla spalla grosso come una pallina da ping pong. 
Mentre allungo il passaporto, la luce se ne va.
In teoria guadagno tempo, in pratica non mi viene niente. 
Del plumber non ho le mani, del carpenter la struttura, del businessman niente di niente. Anche perché la maglietta celeste è al quinto giorno di fila. Mentre il generatore riparte, scarabocchio handy man. Tutto e niente. Io, poi, che per avvitare una lampadina ho bisogno delle istruzioni. 
'na cazzata in pompa magna, insomma.
"Non ridere". 
Stavolta è l'omone dall'altra parte del vetro. Devo assumere l'espressione della fototessera. 
"Australiano?"
"Sì ma nato in Italia..."
"Handy man?"
Forse gli serve un interprete per lo scarabocchio, ma io e la mia coda di paglia la prendiamo come una richiesta di chiarimenti.
"Sì..." in quel momento mi passa accanto una signora con un bambino legato alla schiena e un parapioggia giallo in mano.
"Riparo ombrelli".
"..."
"E affilo coltelli".
Donne dello Zimbabwe, è arrivato l'arrotino e l'ombrellaio.
Ormai è tardi. Sto di nuovo a ride'.
Penso a cose tristi, evito di guardargli il buco sul maglione.
"Ce li hai 20 dollari nuovi? Questa banconota è vecchia". 
Pure questa è fatta.
"Ah, per favore può stampare a pagina 12?"

Day 18  
Lo ammetto, attorno al viaggio sviluppo anche una serie di passioni che qualche volta degenerano in ossessioni e perversioni. Una di queste riguarda la mia collezione di banconote. Il fatto che ogni Paese decida di rappresentare la propria unicita' attraverso volti e simboli del suo passato mi sembra di per se' un aspetto che merita un approfondimento. Mi intriga la scelta dei colori, del taglio (come le banconote da mezza unita' di misura), della grandezza (i 10mila Lei rumeni che non stavano neanche in due portafogli) e tutto il resto. Il fatto che dietro il nome stesso delle valute si celino dei significati reconditi, per esempio. Quella del Botswana si chiama pula, cioe' pioggia - del resto da quelle parti non c'e' nulla che valga piu' dell'acqua. E soprattutto le immagini, estremamente dipendenti dal momento storico che vive un Paese. In Sudafrica il rand - anch'esso un nome olandese che richiama ai corsi d'acqua - ha raffigurato nel giro di pochi anni prima Jan van Riebeeck, padre fondatore della nazione bianca degli Afrikaans, poi un rinoceronte e infine Nelson Mandela, conservando lo stesso colore di base.

Tutto cio' sarebbe pure divertente, istrittuvio e arricchente se la potessi condividere con qualcuno interessato. Invece o non trovo nessuno interessato o non trovo il modo di condividere i quattro faldoni con un paio di banconote. E al massimo si finisce per sfiorare l'argomento quando qualche malcapitato casca nella rete e abbozza un 'Ma e' vero che in Zimbabwe ci sono banconote da 1 trilione di dollari?'. Si', e' vero e te lo posso dimostrare e mostrare. Senza contare il fatto che spesso sono state scelte con cura tra i resti del primo pasto e sono state protette nei libri e salvate nonostante in quel Paese abbia fatto la fame. In Irlanda del Nord la banconota che conservai nel '97 valeva molto di piu' di quanto spesi per stare li' un paio di giorni.

Oltre alle banconote, tra le passioni/ossessioni c'e' poi quella la missione sociale, umana, economico-culturale di distribuire capi di abbigliamenti e utensili a chi ne ha bisogno. C'e' anche quella di leggere quanto meno un mattonazzo sulla storia della nazione che mi ospita. E c'e' quella di rimediare le bandierine in tessuto (anche se non ho ancora deciso quale sara' il loro destino, visto che sono troppe per essere cucite su uno zaino). E - a proposito di bandierine - c'e' la questione di riempire la mappa del mondo. 
Colin Thubron l'ha semplificata cosi', spiegando che si viaggia per quel motivo. Secondo me questa pulsione richiederebbe un'analisi psicologica molto piu' profonda. E la richiederebbe anche secondo buona parte di quelli che incontro, anche se non me lo dicono chiaramente. O meglio... un po' come l'appassionato di cinema e di lettura, che giustifica la dimensione totalizzante della sua passione nella misura in cui e' capace di trascinarti nei suoi risvolti e rendertela se non altro accettabile e affascinante, cosi' io mi ritrovo a spiegare alle persone che incontro in viaggio perche' lo faccio. 
Disperato ragazzo che non sono altro. 

Ora, a parte il fatto che si trova sempre chi e' sazio al primo boccone della storia e chi invece vuole assaggiarla tutta, un tratto comune riguarda il rapporto tra me e i posti in cui sono stato e in cui non sono ancora stato e voglio andare. C'e' chi stupisce che non torni in continuazione negli stessi (cosa abbastanza imprecisa, anzi se posso torno sul sul luogo del delitto 10 o 20 anni dopo - per tracciare una linea tra i due punti e cercare di capire nel frattempo come sono cambiato io, com'e' cambiato il posto, e com'e' cambiata la mia percezione del posto) e chi invece si stupisce del contrario, cioe' del perche' voglia rivedere posti in cui sono gia' stato. 
Raramente come in questo viaggio mi e' capitato si sentirmi dire la seconda cosa, solo perche' 14 anni fa sono gia' stato a Johannesburg e alle cascate Victoria e 15 anni fa sono gia' stato a dar es Salaam e a Zanzibar. Insomma, perche' mezza vita fa ho gia' messo piede in Sudafrica, Zambia e Tanzania. In genere mi accusano di piantare bandierine. Stavolta di aver immotivatamente voluto tornare in posti che ho gia' conosciuto. Chi vi capisce e' bravo.


Day 22 (Zambia)
Due ore di sonno, tredici di viaggio, l'incontro con ragazzini che vendono spiedini di topo e stasera si dorme qui, di fronte al South Luangwa National Park. 
Compatibilmente con l'ippopotamo che sta brucando attorno alla mia tenda.

Day 29 (Malawi)

"Dati ufficiali non ne abbiamo, ma a naso più del 30% di chi vive in zona ha l'AIDS. Di positivo c'è che le informazioni ormai hanno raggiunto tutti i villaggi, anche i più isolati. Oggi qualsiasi donna sa che se rimane incinta deve sottoporsi al test dell'HIV e che - anche in caso di sieropositività - con i trattamenti del caso non trasferirà la malattia al feto e che lei stessa ha ottime chance di vivere a lungo e in discreta salute. Di negativo c'è che gli uomini che vengono a farsi esaminare il sangue, sono ancora pochini".
L'infermiera si ferma e mi guarda. Rachel ha occhi enormi, pare un tarsio, ed è circondata da un alone blu, come il tendone dell'Unicef sotto il quale opera nel centro di Mzuzu, capoluogo della regione di Mzimba, Malawi centro-settentrionale, per la precisione. La zona.
Veramente io volevo solo ficcare il naso, carpire due cose, scattare tre foto.
"E tu lo hai mai fatto il test?".
Eccolalla'.
"Io?...n-n-no"
"E perché?"
"Beh in primis perché ho avuto una vita sessuale abbastanza... limitata. Per non dire noiosa. Ecco".
"E le tue compagne?"
"Più piatte di me. Quasi tutte. Anzi diciamo la metà".
"E l'altra metà?"
"Son state quattro, mica quaranta"
"Troppe. Non puoi esserne certo"
"Bah, ti assicuro che siamo sulla soglia della santità. E poi non frequento ospedali, non ricordo trasfusioni di sangue o cose del genere".
Non l'ho convinta neanche un po'. Gioco il jolly.
"In realtà a pensarci bene il governo australiano ha provveduto per conto mio. Sei anni fa il test l'hanno fatto loro ed è risultato negativo".
"Sei anni fa?". 
Rachel sospira, ridacchia, guarda la collega, poi torna dal mzungu. Che sarei io.
"Hai paura?"
"..."
"...!"
"Fino ad un attimo fa no".
Ed è lì, sulla soglia della tenda blu, che il mzungu, l'avventuriero, il bianco, il colonizzatore, finisce con tutte le scarpe nella testa dei tanti milioni di africani - soprattutto uomini - che nel dubbio preferiscono non sapere. Perché ignorance is bliss, perché scoprire di avere l'AIDS significa autocondannarsi a non avere figli, a non poterne dare alla propria compagna o peggio ancora a fregarsene delle possibili conseguenze.
"L'autobus parte tra poco. Quanto dovrei aspettare?".
"Cinque minuti. Massimo"
I minuti di attesa sono sì e no tre. Interminabili, ma tre.
La prestazione è stata rivedibile, ma nell'occasione era importante portare a casa il risultato. Negativo, anche se non ho mica visto la confezione dalla quale hanno preso l'ago, Rachel e l'amica sua. Per cui vai a capi' se mi sono dato la zappa sui piedi e me lo sono preso sotto la tenda blu dell'Unicef.
Intanto però con questo qui di Mzuzu i passaporti sono tre. E Rachel non me l'ha fatto neanche pagare.







Quando in Uganda incroci una bottiglie di VAT69 ed e' piu' forte di te...

lunedì 29 agosto 2016

Glourious Basterds

Tarantino spezzerebbe il racconto in due volumi. Il primo su una partita normale fra due donne estrose, bizzose, vecchia scuola, simili nella loro differenza ostentata. 
Da una parte la russa di Spagna, che ha appena messo fine alla vita sportiva di Justine Henin e finora è andata a manetta. Dall'altra la Leonessa di Milano, che come il vino buono sa sfruttare il tempo ma quest'anno a Melbourne ha remato tanto e frullato poco. Ha faticato a ‘sentire la palla’, dice. E' andata al terzo con la Parra Santonja, è andata a due punti dalla sconfitta contro Rebecca Marino, vancouveriana di sangue nisseno, canadese dell'anno ma sempre 104 del mondo. Ha anche dovuto annullare 3 set point alla Niculescu, la campionessa di Parigi, aggrappandosi al torneo con le unghie pur di presentarsi alla tredicesima puntata della saga contro la russa. Ma sul veloce la Schiavo non hai mai battuto la Kuznetsova. Anche se la testa di serie buona la sua, anche se in classifica la precede di 20 posizioni, insomma, non è favorita. 
La storia è quella di un ottavo di finale degli Australian Open, la location è l’Hi Sense Arena. Gli organizzatori non hanno offerto alle ultime due vincitrici del Roland Garros il palcoscenico della Rod Laver e le hanno spedite sull'unico impianto che non richiama una gloria della racchetta, ma dei condizionatori cinesi. Lo stadio è un cubo polifunzionale, freddino nell’accoglienza di due vecchie conoscenze che le copertine se le sono guadagnate sempre e solo per le loro vittorie. Il primo capitolo del film andrebbe infarcito di flash back sui precedenti recenti in Fed Cup – la battaglia nella finale di Mosca vinta dalla russa, la rimonta dell’azzurra sul rosso di Castellaneta – sul sudore invernale di Sveta in terra catalana, sull'ascesa nell'Olimpo della milanese, che tra un trionfo parigino e un tweener newyorchese s’è ritagliata un ruolo che per anni le è stato riconosciuto solo in Italia, quello di personaggio del circuito, Non più solo grinta e cuore, ma genio della lampada, una specie in via d'estinzione. 
Il film si snoderebbe parallelamente al racconto dei primi due set, che a dispetto del punteggio (6-4 per la Schiavone, 6-1 per la Kuznetsova) sono tanto tirati da durare quanto il primo Kill Bill, 106 minuti. Tirati, non belli. Perché l'azzurra continua a sprazzi a non sentire la palla e perché la russa alterna frustate di dritto a badilate in tribuna. Ma siccome nello sport come nelle arti visive la bellezza sta anche nella carica emotiva, la partita tiene tutti incollati alle sedie e l’Hi Sense via via si riscalda. Nella specialità del coinvolgimento passionale sono due delle interpreti più limpide e antitetiche, la formica e la cicala. 
La bellezza, insomma, non manca. Poi, sui titoli di coda, arria anche il pathos: Schiavo e Sveta rimandano il verdetto al sequel,un terzo set indimenticabile. Un capolavoro tecnico, agonistico, umorale. Un capitolo a parte, un film da vedere e rivedere. Un epilogo lungo tre ore, esatte e memorabili, scandite dagli interventi del medico e dell’occhio di falco, da 31 palle break e da 6 match point annullati, dai boati di un pubblico prima partecipe, poi coinvolto e infine in visibilio e soprattutto da un tennis champagne. Gli highlights del match
Quando vivi un pomeriggio così intenso e ammiri gesti del genere, finisci per essere completamente coinvolto dalla vicenda umana e sportiva e non senti la fatica” dirà nei corridoi il catalano Enric Molina, suo malgrado giudice di sedia del match. In campo, invece, la fatica si accusa eccome. Ma l’effetto è catartico. Liberate dalle zavorre psicologiche, le due lasciano andare il braccio e mandano a referto mucchi di vincenti. Un applauso a scena aperta ad ogni mazzata della moscovita, un boato ad ogni ruggito della leonessa: nell’entusiasmo della folla c’è il piacere di chi sa apprezzare, la soddisfazione di chi ha una storia da raccontare e l’orgoglio di chi se ne sente co-protagonista. Col senno i poi, i tre match point consecutivi per la Kuznetsova sull’8-7 e gli altri tre per la russa sul 9-8 sembrano il classico omaggio ai B movies, i film dal copione scontato in cui l’eroina riesce a salvarsi con la pistola puntata alla tempia. Alla Tarantino, appunto. 
Col senno di poi, quando la Schiavone esce dal tunnel, il finale della storia diventa chiaro e il pubblico si schiera dalla sua parte. Lo sanno tutti che vincerà lei. Quando sul 13-13 le telecamere si soffermano sull’orologio a bordo campo e fermano l’attimo fuggente sulle 4 ore e 20 minuti, nella testa di Francesca rimbalza un incoraggiante ‘Brava, fisicamente sei una roccia!’, in quella di Svetlana un deprimente ‘La dovevo chiudere prima!’, fra i giornalisti si incunea il panico della statistica da verificare (superate le 4 ore e 19 di Zahlavova Strycova-Kulikova) e da aggiornare, e fra il pubblico la sensazione dolcissima dell’ ‘Io c’ero’. Non resta insomma che trovare un finale adatto al racconto, perché ormai è scritto che sia Francesca ad entrare nella storia dalla porta principale. E’ scritto perché una campionessa non può accontentarsi di tenersi dietro entrambe le Williams e di eguagliare il best ranking italiano di sempre, con la quarta posizione che la attende dopo gli Australian Open, non può accontentarsi di aver annullato 6 match point alla Kuznetsova e di aver disputato la più lunga partita nella storia degli Slam femminili. 
Prima di scrivere la parola FINE, la Schiavone deve vincerla. E per farlo impiega altri 24 minuti. Così, solo quando anche l’orologio ha deciso di partecipare a modo suo alla narrazione, indicando un tempo che più facile non si può – 4 ore e 44 minuti – la milanese mette la firma con una volée bassa al trentesimo game del terzo set, al trecentocinquattottesimo punto del match, e chiude con le braccia al cielo e un sorriso così.  Sogno un giorno di far vedere a mio figlio il dvd della partita” dirà. Già, come se ne bastasse uno.

Tratto da Supertennis n. 2 - febbraio 2012 

domenica 26 giugno 2016

La decrescita felice

Passerà, prima o poi, questa noia mortale, questa monotonia che in confronto la Formula Uno è tutto un Moët Moment. Almeno i piloti con l'auto bionica sono due. E poi magari uno rompe, uno si ritrova una gomma a terra, un meccanico si inceppa, una Sauber ti tampona. Botte di adrenalina, rispetto al tennis. Djokovic non rompe mai, non si sgonfia mai, non si inceppa mai e gli altri vanno talmente piano che il cannibale lo batte solo la congiuntivite.

Ci vuole pazienza, però, perché uno più forte del serbo non è ancora venuto fuori e non è detto che nasca. L'Impero del Nole non finirà sotto i colpi di un altro. Djokovic andrà avanti finché non correrà i 100 in 9'50, finché i contemporanei non saranno umiliati e i posteri non sapranno di essere eredi per caso. Quando Nole avrà battuto pure Beamon e Sotomayor e la Serbia avrà il suo nuovo grande Presidente, allora sì, la palla passerà al fortunello di turno, uno che sarà l'antitesi del perfezionista di Belgrado: cialtrone, guascone, un po' quaquaraquà. Amato perché atteso sì, ma non osannato, perché la sua missione nella storia non sarà migliorare il tennis, ma riumanizzarlo, guidandoci verso la decrescita felice. 

Uno dei candidati è Nick, il guappo nato 21 anni fa a Canberra. Un postaccio freddo e isolato, senza una spiaggia, una stazione, un aeroporto internazionale, una squadra di calcio o di footy. Una capitale messa su di corsa per evitare che la rivalità tra Melbourne e Sydney superasse il livello di guardia e costruita seguendo il mito della città ideale, fatta di vialoni, laghetti, parchi e gallerie d'arte. Sulla carta tutto bello, in realtà un'accozzaglia di edifici anonimi, odiata dai suoi stessi abitanti. Un posto talmente  alienante che negli anni Ottanta il Primo Ministro australiano John Howard preferiva sorbirsi 300 chilometri di Hume freeway pur di non viverci. 

Nicholas Hilmy Kyrgios è venuto al mondo lì, a una manciata di isolati dalle sede delle istituzioni federali, terzo figlio di due immigrati: una principessa malese che aveva cestinato il titolo nobiliare pur di sbarcare down under assieme alla madre, e un pittore - nel senso di imbianchino, non di artista - nato in un paesino sulle montagne Epiro e che aveva fatto le valigie per l'Australia durante gli anni Sessanta. Quelli che in Grecia sono stati favolosi solo per i colonnelli.
Giorgios detto George e Norlaila detta Nilli (lo shock da toponimi aborigeni ha portato gli Aussies ad un'intolleranza verso tutto ciò che eccede le due sillabe - così breakfast diventa brekky, barbecue barbie e Nicholas, ovviamente, Nick) avevano già avuto due figli. Uno battezzato secondo il rito ortodosso come il nonno paterno, Christos, l'altra come una principessa mesotopotamica, Halimah. Per i motivi di cui sopra, i due sarebbero poi diventati X e Hali. Col tempo si sarebbero diplomati rispettivamente in legge e in spettacolo, quindi uno avrebbe aperto palestre a Brisbane, l'altra avrebbe finito per recitare, danzare e cantare nei teatri giapponesi. Ma il loro posto al sole lo avrebbero trovato nella corte dei miracoli del piccolo Nicholas, tanto spavaldo in campo quanto bisognoso di sentirsi tra due guanciali una volta uscito dalla comfort zone familiare.

Che poi secondo Andrew Bulley, il suo primo mentore sui terreni spelacchiati del Lyneham tennis centre di Canberra,  quel ragazzino paffuto del Redford college non ha niente di speciale neanche con la racchetta in mano. È lento - e ci mancherebbe, tracagnotto com'è - e la testa parte spesso per la tangente. Basket e XBox, quelle sono le vere passioni del piccolo wog*. Passatempi che danno sostanza al suo bisogno di miti: i Boston Celtics, il Tottenham, Kevin Garnett, Adebayor. Tutte icone che sono ancora lì, nel pantheon kyrgiossiano, assieme alla famiglia, ai cani, al sushi e ai Griffin. Il Terzo Millennio ha aggiunto solo Rihanna e Twitter. E il sesso, vabbé.

Per carità, si applica e non manca mai un allenamento, Nick. Quando il circolo è chiuso, Nilli lo aiuta a scavalcare la recinzione per fargli tirare due colpi, anche a costo di obbligare la sorella a fargli da sparring. Perché il fisico non c'è, non ancora, ma l'appoggio della famiglia è totale e incondizionato. E lui intuisce che il dono di natura alimenta solo rimpianti e chiacchiere da bar. Per arrivare lassù ci vogliono volontà, umiltà e ambizione. Non in questo ordine, e per fortuna non in parti uguali. Quella stella polare lo porta, appena sfinato e sviluppato, a indossare la canotta della rappresentativa juniores di basket dello Stato. Un amore, il primo, breve e intenso ma che finisce a schifio. A 14 anni, dopo l'ennesimo infortunio, Nicholas ripercorre le orme dei genitori, abbandona la patria del cuore, la palla a spicchi, for a greater good, il tennis.

Nel giro di un paio di mesi la federazione lo prende sotto la sua ala, gli assegna una borsa di studio, lo affida all'ex pro Todd Larkham e lo mette su un aereo per le Figi. A Lautoka, Nick spiezza in due tutti gli avversari, e in finale lascia 4 games all'israeliano Dekel Bar, di due anni più grande di lui, intascando il primo titolo ITF junior. Kyrgios ha 15 anni e 2 mesi, i capelli malamente ossigenati, al collo una collanina con un crocifisso, in camera i poster di Philippoussis, Tsonga e Federer. Sul diario di scuola un motto nuovo nuovo: "Individua i tuoi idoli e poi superali". Il treno è lanciato.
L'anno seguente, NK fa capolino nel torneo junior degli Australian Open: in tabellone le primedonne sono altre - Thiem, Vesely, Pouille - e il quindicenne Nick non va oltre il terzo turno. I riflettori australiani tra l'altro sono tutti per Luke Saville, che nel giro di 12 mesi vince due baby Slam e sale al primo posto del ranking giovanile. Ma i ben informati lo sanno che the next big thing è l'altro, quello meno biondo e meno anglo, nel look e negli atteggiamenti. Il potenziale è roba seria, Kyrgios merita fiducia e investimenti. Perciò a Larkham, che lavora sulla tecnica e sulla tattica, si affianca Aaron Kellet, che si prende carico dei muscoli e della testa. Un compito ingrato. Il terreno è sconnesso, il soggetto è spigoloso e bipolare: Nick si atteggia a Lil Wayne e ha fame a giorni alterni, ogni tanto dorme col sedere scoperto e quando c'è da lottare a volte si nasconde, altre si esalta. La lontanza da Canberra, poi, provoca lacrime e frustrazioni, isteria e euforia.

Larkham si concentra soprattutto sui colpi di inizio gioco, perché il tennis di oggi va così e perché Nick è figlio del suo tempo. L'umore è instabile, il corpo fragile. Kyrgios colleziona problemi un po' dappertutto, al ginocchio, al gomito, alla schiena. Anche se in palestra si danna, la mobilità resta il suo tallone d'achille. E poi psicologicamente è un front runner, Nick. L'entusiasmo che mette in campo è proporzionale ai 15 di vantaggio sull'avversario. Insomma, meglio insegnargli a prendere subito in mano lo scambio, perché è lì che Kyrgios dà il meglio di sé: quando schiaffeggia col dritto, quando aggredisce le risposte come se avesse appena subito un affronto, quando frusta servizi sempre più forti da altezze sempre più mature. Il più delle volte, l'istinto basta e avanza per portare a termine lo spettacolo tra gli applausi, ma scrivere il copione diventa impossibile come fare le previsioni meteo a Melbourne. È sempre e solo Nick a decidere se piove o se c'è il sole.

Il primo assaggio del circuito pro va esattamente così: nel pomeriggio in cui Matteo Viola recupera da 5-0 40-0 e batte Lajovic dopo aver annullato 8 match point, Nick strappa il primo set al francese Rodrigues, poi si dissolve. Ha 16 anni e mezzo, una sconfitta nel primo turno delle quali di Melbourne - gli dicono - non è un dramma. Lui, ovviamente, i drammi li fa eccome, ma in quel 2012 solleva comunque un paio di coppe para-importanti, mettendo a segno la doppietta Parigi-Londra in doppio juniores. Andrew Harris, il suo partner, fa talmente bella figura accanto a Nick che John Roddick, fratello di Andy, lo mette sotto contratto per gli Oklahoma Sooners. Peccato che quello buono fosse l'altro. A Wimbledon, dove il duo Aussie si impone senza concedere set, a farne le spese in finale sono Donati e Licciardi. In singolare, invece, Kyrgios si ferma nei quarti, beccando 6-3 6-1 da Quinzi. Ventiquattro mesi mesi dopo toccherà a Nadal saggiare le sue pallate, e lo spagnolo non ne uscirà bene come GQ.

Il teenager Aussie arriva all'appuntamento con Rafa tra uno strappo e l'altro. Diciotto vittorie di fila a livello junior tra fine 2012 e inizio 2013, i primi punti ATP raggranellati nei futures giapponesi, il titolo giovanile a Melbourne in finale sull'amico Kokkinakis, il challenger di Sydney conquistato prima del diciottesimo compleanno (marchio di fabbrica di grandi del calibro di Djokovic, Nadal, Hewitt e Del Potro), giocando nella stessa domenica quattro partite - semi e finale di singolo, semi e finale di doppio - e vincendone tre. Con in tasca il primo assegno da 7mila dollari, e dopo aver scalato 500 gradini ATP in meno di due mesi, la sera stessa #NKrising vola a Pechino. Accanto a lui non c'è più Larkham, ma Simon Rea. È il coach neozelandese ad accompagnarlo negli ultimi 3 tornei Futures della vita, quando Kyrgios si aggiudica 12 partite su 14 chiudendo la parentesi ITF proprio il giorno del suo diciottesimo compleanno, con un titolino in Cina e l'ingresso tra i primi 300.

Rea rimarrà al suo angolo per 18 mesi. Lo vedrà battere Stepanek al debutto a Parigi, dove Nick cancella 6 set point consecutivi nel secondo e finisce col vincere 3 tie break su 3 perché quel giorno, al Roland Garros, c'è il sole. Rea lo vedrà qualificarsi per il main draw New York e impegnare per un'oretta Ferrer, lo vedrà infiammare Melbourne Park contro Becker e Paire, lo vedrà intascare back-to-back i challenger di Savannah e Sarasota e rispettare l'obiettivo-top 200 in tempo per il diciannovesimo compleanno. 


E c'è sempre Rea nel suo angolo, quando nell'estate 2014 il greco-malese-australiano dà un colpo di clacson al pianeta-tennis. Nick atterra a Nottingham, dove sono in programma due challenger, da 173 ATP. La classifica è buonina, ma non basta per entrare a Wimbledon dalla porta principale. Kyrgios è solo il settimo australiano del lotto, ma anche i due che lo precedono - Duckworth e Groth - sono a caccia di punti per disputare i Championships, e le Eastern Midlands diventano così la sede di una specie di play off per la wild card Aussie. Nick si complica subito la vita: fuori fase, nel primo torneo viene maltrattato dal suo mate John Patrick Smith, che in patria è il numero 8 e in classifica lo tallona pure. Per aggiudicarsi un armadietto a Wimbledon, insomma, serve un mezzo miracolo. Quello che Nick confeziona nel secondo challenger. La rincorsa comincia dalle quali, poi in tabellone NK recupera un set di ritardo a Bemelmans, poi liquida Edmund, quindi la spunta 7-6 al terzo contro Krajinovic e in semi supera facilmente Mecir jr. La finale contro Groth è uno spareggio per l'All England: dopo due tie break e uno stop per la pioggia, Kyrgios intasca il terzo titolo challenger dell'anno. Poi, prima della cerimonia e dei ringraziamenti, arriva il premio più atteso, la chiamata di Andrew Jarrett, capo degli arbitri di Wimbledon. La wild card è sua.


Sui prati di Londra, Kyrgios fa fuori Robert, poi annulla 9 match point a Gasquet e vola al terzo turno facendo meno punti del francese. Prima di sbarazzarsi di Vesely, la promessa Aussie è ospite di Mats Wilander e Annabel Croft su Eurosport: una decina di minuti di ovvietà sbiascicate, mai uno sguardo dritto in camera. La risposta più lunga dura 22 secondi ed è infarcita da dieci "You know...". Il primo luglio, però, la parola torna al campo. Ci sono gli ottavi, c'è il Centre Court, sugli spalti 8 Fanatics, al suo angolo Hali, George, Aaron, Simon e la fisio Anne-Marie, dall'altra parte della rete il numero uno del mondo, Rafa Nadal. Si comincia alle 4.10 del pomeriggio con un ace di Nick, si finisce 2 ore e 59 minuti dopo con un altro ace di Nick.



In mezzo altri 35 ace, 70 vincenti e una specie di tweener al contrario, sul 3-3 nel secondo set, che racconta Kyrgios molto meglio di questi ventimila caratteri. Grado di difficoltà cento, dose di fortuna oltre la soglia di sopportazione. Un altro si sarebbe scusato, per quella demi volée da fondo campo in mezzo alle gambe. Stai pur sempre giocando contro Nadal nel tempio del tennis, non è che puoi bullarti per un punto da cineteca che è fondamentalmente un colpo di culo, e poi pure esultargli in faccia. Tu non ti fai ancora la barba, quello è Rafa, se la lega al dito ti manda a casa a piangere da mamma. Un altro avrebbe pensato così, Nick no. Nick non solo non ci pensa proprio a chiedere scusa. No, lui allarga le braccia per invitare l'applauso, per accogliere l'ovazione, per far sapere al mondo che lui è un fottutissimo genio, che quei colpi ce li ha nel sangue, per indicare ai fedeli le dimensioni del suo ego. "Preferite lui o me?". Fino al 30 giugno 2014 Nick è un prospetto, dal primo luglio è un personaggio che entra nel circuito a piedi uniti. E dettando pure le condizioni. "Io sono questo. Se non vi sto bene, peggio per voi". Perché il mondo di Kyrgios non conosce sfumature di grigio. O sei un lover o sei un hater.



È il giocatore con la classifica più bassa ad aver fermato Rafa in uno Slam, il primo teenager a bloccare la corsa di un numero 1 in un major eccetera eccetera, ma il dato che a lui interessa di più è che al suo risveglio i followers su Twitter sono triplicati. La marea dei fedeli si ingrossa, o almeno così crede. Prima che si schianti contro Raonic nei quarti, Nick è già stato processato, psicanalizzato e deificato decine di migliaia di volte. Troppo viziato e immaturo, si dice, potente e talentuoso sì, arrogante pure. Ma anche forte forte. E talmente fuori di testa da liquidare Simon Rea il giorno dopo i quarti di Wimbledon, dopo essersi affacciato tra i top 50. Perché nessuno pensi che i meriti dei suoi exploit vadano condivisi. I traguardi sono solo roba sua. 


Il lungo dopo-Djokovic comincia così. La Bonds, la Beats e la IMG montano sul carro. Via la fascetta di spugna da bamboccione, il sopracciglio viene sfoltito con due rasoiate, ad ogni torneo spunta un taglio di capelli diverso  disegnato da una parrucchiera di Melbourne, Gidget Ricca. E poi, sotto il mohawk, l'orecchino, anzi il brillocco da gansta paradise, perché quando si è truzzi dentro è giusto rivendicarlo, il proprio orgoglio coatto. Tutto quel che segue è inevitabile, fastidioso e in un certo senso liberatorio. Kyrgios dà il pruriti ai colleghi, alla stampa, alla maggior parte delle persone dotate di senno. Ma prende a calci l'etichetta prima di esser diventato un ex. E uno così, mentre Roger e Rafa imboccano il viale del tramonto, al tennis serve come il pane. Le spacconate non iniziano subito dopo Wimbledon, perché prima di Natale Nick gioca solo altre 8 partite perdendone la metà. A tenerlo lontano dai campi c'è qualche malanno, una pressione che schiaccerebbe un elefante e la malattia dell'adorata nonna materna. Quando Julianah Foster muore, a 74 anni, Nick si fa tatuare quei due numeri su un dito, il medio, che da lì in poi bacerà ad ogni vittoria. Durante la pausa invernale, poi, contribuisce con 10 mila dollari alla ristrutturazione del vecchio Lyneham tennis club, dove una tribunetta in legno viene battezzata Nanna's Hut in memoria della nonna malese.

Il ritorno di Kyrgios sul proscenio è col botto. Quarti a Melbourne, con match point annullato a Seppi, e Nick aggiorna il libricino delle statistiche-che-contano: l'ultimo teenager a raggiungere i last eight in due Slam era stato King Roger, mica cotica. In primavera, sulla terra di Madrid, proprio Federer diventa il secondo grosso trofeo di caccia da appendere sopra il camino. Anche questo condito da qualche palla match salvata. Nel giro di un paio di settimane per Nick arriva anche la prima finale ATP all'Estoril, la torta con 20 candeline e un nuovo best ranking al numero 30. Il vulcano è pronto ad esplodere, ma nei mesi seguenti sono più i flirt veri e presunti (Azarenka, Bouchard, Tomljanovic) che le vittorie, più le marachelle che le partite, più le multe che le menzioni d'onore.

A luglio torna sul luogo del delitto. A Wimbledon Nick ingaggia un duello col pubblico, maltratta racchette, ingiuria Lahyani, e mentre babbo Giorgios si fa cacciare dalla direzione, lui molla la presa contro Gasquet. Mamma Nilli gli tira le orecchie pubblicamente, Andrew Webster del Sydney Morning Herald scrive che è sempre più difficile amarlo, ma la vicenda s'ingrossa quando l'ex nuotatrice Dawn Fraser tira la bomba:  “Se a Kyrgios e a Tomic non piace il nostro Paese - afferma l'ottantenne quattro volte campionessa olimpica - se ne tornassero da dove vengono i loro genitori”. Parole che scuotono una nazione fondata sul multiculturalismo, nella quale il ruolo nella società e i diritti delle minoranze sono bucce di banana da evitare con cura. Il clan di Nick gioca astutamente la carta del razzismo e si ritrova col coltello dalla parte del manico. La Fraser si ritira con perdite, Kyrgios si salva in corner.

Ad agosto, il capolavoro di una vita: NK riesce a far parlare del torneo Montreal persino sui giornali generalisti italiani grazie alla versione ricottara del triangolo amoroso, il banging-gate. Stavolta Karen Hardy del The Age gli dà direttamente del coglione (twat) e della testa di cazzo (dick), punta il dito contro il modo in cui i genitori lo coccolano e in cui il suo clan lo protegge. Se fosse per lei - scrive - Kyrgios crescerebbe a forza di calci nel sedere. Frasi che down under non si leggono neanche sui blog dei curvaroli, figuriamoci su una testata vecchio stampo e sulla pelle di quello che ogni santo gennaio viene fatto passare per il supereroe nazionale per vendere qualche copia extra. Nick chiede scusa a mezza bocca, ma anche stavolta trova chi gestisce la crisi diplomatica peggio di lui.  Interpellato da radio Triple M, il fratellone Christos dà della puttanella alla Vekic: "Non è mica colpa mia se le piace il Kokk**", dice testuale. Per sgomberare il campo dai dubbi, mister X ci mettere il carico da undici su Facebook: "Wawrinka è fortunato. Se mi avesse incrociato negli spogliatoi si sarebbe dovuto ritirare dai prossimi tornei" aggiunge. 
Tamarri si nasce, e i Kyrgios - modestamente - lo nacquero. 
Che poi il summit tra Nick e Stan si sarebbe potuto tenere poco dopo, a Tokyo, se l'aussie non fosse imploso nei quarti contro Benoit Paire, sparando più f-words che winners, prendendo a pallate il tetto dell’Ariake Coliseum e cavandosela tutto sommato bene, con una multa da fare il solletico e l’appellativo di “patetico” affibbiatogli su Sky Sport dall’ex pro Nick Lester. A Shanghai la pagliacciata si ripete: fanculo al campo, ai cameramen e alle raccattapalle: sanzione da duemila dollari, nuovi appellativi sulla stampa tipo brat (a proposito… già detto che il brat originale, John McEnroe, lo ha già apostrofato con un bonehead, che sa più o meno di imbecille?) e si ricomincia. Bello, no? Un’asta da Christie’s, un gioco al rialzo. Più lui fa il cozzalo, più il tennis si scuote dal torpore medievale e si ritrova nel futuro. Senza volerlo.
Sarà che le stagioni Down Under sono sfasate, ma invece di andare in letargo, in inverno Nick si
inventa pure la saga-Davis. Un dramma in tre atti, una scaramuccia che sarebbe rimasta un affare
interno all’Australia se non fosse che ormai le bambinate di Kyrgios creano dipendenza. Sull’erba
di Darwin, il Kazakistan sembra un cliente facile. Invece venerdì sera Kukushkin & Co. vanno a
dormire sul 2-0, anche perché Nicholas non ha voglia di giocare e lo dice apertamente. A sé, a Wally 
Masur, di nuovo a sé e infine ancora a sé, assicurandosi che microfoni e telecamere registrino tutto.
A sistemare la pratica ci pensano Groth e Hewitt, che nei sogni proibiti di qualcuno diventa la
bacchetta magica per trasformare il rospo pitonato in una macchina da punti. 
Vuoi vedere che il vecchio leone pensionato è l’unico in grado di farsi ascoltare e rispettare da Nick? 
Sì, quasi. Lleyton può fare il capobranco, non certo mettergli la museruola. 
Così, dopo che a novembre Kyrgios ha disertato la semifinale di Glasgow perché era più forte di lui, 
il 2016 inizia con l’ennesima sceneggiata sulla Rod Laver Arena e prosegue con la frittatona 
di marzo. 
La Davis arriva nel momento migliore della carriera del wonderboy, tra il primo titolo di Marsiglia 
e la prima semifinale in un Master 1000 – a Miami – che gli regala anche l’ingresso tra i top 20. 
Ma a Kooyong, Kyrgios fa incordare solo due Yonex, consuma quattro palline e poi saluta tutti. 
Lui ha la cacarella e si defila, lasciando Hewitt a calcare l’erba da ex e il polso di Tomic 
alla mercé dei maverick di Isner.

Alla faccia dello spirito cameratesco, l’amico Bernie gli dà del falso, del bugiardo e dell’infame.
Nicolino replica che non prende lezioni di serietà da Mister Tanking, Lleyton si domanda chi 
gliel’abbia fatto fare, Craig Tiley perché non sia nato 40 anni prima. Gli psicologi dello sport di una 
nazione si chiedono una volta per tutto cosa faccia la muffa nella capa di NK e la diagnosi è 
impietosa: il ragazzo annaspa nel gap tra motivazioni e obiettivi e soffre di impulse control issues, 
ha problemi di incontinenza verbale. 
Il tutto nasce da un conflitto permanente tra l’atleta e l’intrattenitore, tra il professionista e lo 
showman, tra il cocco di mamma che è dentro di lui e il bello e dannato che ha deciso di essere. 
La verità, è che Kyrgios è un po’ come la grigliata di pesce ratto, per qualche motivo a qualcuno 
piace così. Ma, di sicuro, in futuro non ci annoieremo per un bel po’. Anche grazie a Nick.



*Wog è il termine derogatorio col quale in Australia si indicavano gli immigrati dal Medio Oriente, 
dall’Europa meridionale e dall’Europa dell’est. Oggi viene usato per lo più in modo leggero e autoironico.
** Kokk è il diminutivo del suo amico Kokkinakis. Ma anche e soprattutto l’organo riproduttivo maschile.