martedì 29 dicembre 2015

The Interview

Contro il logorio della debilitante off-season, non sempre bastano storie o racconti di chi il tennis lo ha vissuto alla grande per quasi tutta la propria vita a compensare la mancanza del gioco vero e proprio, anche se a volte fortuna vuole che qualcosa vada oltre il semplice racconto, sfociando nell’esperienza di vita che lascia davvero di stucco anche solo per la verve di chi la racconta in prima persona. Dieci ore di fuso orario e 10.000 miglia esatte si sono frapposte tra me ed il mio interlocutore, con le feste natalizie che hanno complicato il tutto, eppure il caffè ‘mancato’ per fare di persona quelle due chiacchiere di rito non mi ha privato della conoscenza di una persona brillante e virtuosa, con tanta passione che non è stato difficile veder fuoriuscire dalle fredde lettere in un anonimo Times New Roman.
Dario Castaldo, dall’esperienza di Supertennis TV, con la quale collabora ancora per gli Australian Open e gli Internazionali BNL d’Italia, alla vita in Australia. La sua vita è passata dal Bel Paese al nuovo mondo Down Under: È cambiato poco. La sveglia suona prima dell’alba anche qui, guido sempre uno scooter coreano, mi pagano ancora per parlare in radio e alle soglie dei 40 anni continuo a dilapidare i risparmi tra viaggi zaino-in-spalla. La differenza sta nel contorno: a Melbourne non c’è uno straccio di piazza, ci sono più autostrade che librerie e il limoncello costa 50 dollari a bottiglia. In compenso il mio editore è il governo australiano, un tizio flessibile come un palo della luce ma che tende ad essere corretto. Insomma, lavoro per l’emittente di Stato, a giorni alterni palleggio sui campi di Melbourne Park e non ho mai preso multe, ma dopo 5 anni non mi è ancora chiaro se nel cambio c’ho rimesso.” Non manca poi una menzione per chi è stato un'ispirazione negli anni: “Alberto D’Aguanno. Prima nel lavoro, poi nella vita.
Come detto, dall’Italia all’Australia, non si è mai scordato gli inizi. Quali sono stati i primi passi nel mondo del giornalismo sportivo? Cosa rifarebbe e a cosa darebbe un colpo di spugna?
Il giornalino delle elementari vale? Intervistai il compagno di scuola che si chiamava Francesco Totti, sa? La gavetta è iniziata ai tempi dell’università, in un’agenzia stampa che pagava 15mila lire ad articolo, perché ci sono cose che il tempo non cambia. Nel frattempo sono passato per cinque o sei radio, per tre o quattro televisioni, per un paio di quotidiani e un paio di mensili di calcio, per magazine di viaggi, per riviste culturali, per service editoriali e pure per web tv. Sono 20 anni di bivii, roba che a ripensarci viene la labirintite. Rimpiango solo quella volta che da bordocampista commentai la finale del campionato australiano. Dopo 120 minuti lisci come l’olio, al fischio finale corsi incontro al man of the match e gli lanciai una battuta di spirito. Mi uscì male, lui la capii peggio e sparò un paio di ‘fuck’ in diretta radio nazionale. Sulla vicenda venne pure aperta una specie di inchiesta. Fui assolto, era tedesco.
Voce di tante telecronache nella sua carriera, come ogni telecronista che si rispetti, ha tanti ricordi delle gesta che la propria voce ha avuto l’onore e l’onere di raccontare, con qualche imprevisto che è quasi un classico, ma che a distanza di anni si ricorda quasi sorridendo: “Telecronache piacevoli? Tutte, persino Barrois-Larsson, semifinale dell’Estoril con 5 spettatori in tribuna e qualcuno in meno davanti alla TV. Complicate? I doppi estemporanei tipo Marx-Zelenay contro non so chi e chi. O quelle notturne. È successo più di una volta che un compagno di telecronaca si assopisse, o che alle 6 di mattina andassi in radio senza passare dal via. Durante un quarto di finale di Auckland il mio ospite si rifiutò di parlare della partita, chiedendomi di cercare argomenti alternativi per tutta la durata del match. Per Dahlia TV seguii dal vivo la finale del Challenger del Due Ponti tra Volandri e El Amrani, appollaiato di fronte al giudice di sedia senza monitor né internet. Più che una telecronaca fu un esercizio creativo. Last but not least la finale del Foro Italico del 2012 tra Sharapova e Li Na. Partita isterica, sospesa per pioggia sul 6-6 al terzo: mentre attorno scoppiano tafferugli tra gli ultra del Napoli e della Juve, il mio compare molla la presa dopo due ore di attesa, ho il motorino a piazzale Clodio e 10 amici che mi aspettano sotto casa perché l’indomani ho l’aereo per l’Australia. Ho rischiato di perdere o il volo o la faccia, invece come nel più classico cheeseburger hollywoodiano non solo tutto si è sistemato, ma quel giorno Supertennis ha superato per la prima volta il milione di contatti.
La sua nuova vita lontano da casa ha permesso di tenersi a stretto contatto con il dietro le quinte del tennis, intervistando molti personaggi di spicco nell’ambiente. Professionista ma anche, logicamente, uomo: quando ti trovi ad un passo da grandi campioni non puoi rimanere totalmente distaccato, per cui rimangono sensazioni profonde anche se si parla delle impressioni del bordo campo: “Sono un povero idolatra. Sospiro come una groupie ogni volta che Nadal mi saluta o che Federer sghignazza come unaclaque del Drive In. Quel neurone che rimane funzionante lo sa che Gulbis non è proprio un filosofo, ma poi depone le armi e decide che è meglio continuare a credere a Babbo Natale.
Per quanto l’Italia sia un paese che può vantare numerosi appassionati di tennis, in Australia si disputano ogni anno moltissimi tornei, e la storia la vede come una delle capitali di questo sport. Come si vive il tennis in Australia?: “Presente i Fanatics? Rappresentano la parodia del tifoso australiano: chiassoso ma mai sopra le righe, devoto ma leggero, appassionato ma innocuo. Fondamentalmente indifferente. Al tennis, come a qualsiasi altro aspetto della vita, gli australiani chiedono solo un pretesto per stare insieme e bere birra. Il cricket tira per questo, le partite durano 5 giorni.
Anche la Federazione nazionale è sempre stata un punto di appoggio non indifferente per i giovani talenti.Quali sono i passi che vengono intrapresi per la crescita di un futuro campione? E di cosa potrebbe fare tesoro la Federazione italiana?
L’appoggio c’è e serve, per carità. La tradizione e la professionalità aiutano. I soldi ancora di più. Poi vedi Kyrgios e capisci quanto conti madre natura. La prima volta che lo incrociai non gli avrei dato una lira: quel giovanottone olivastro, che ciondolava per la palestra come un pivot svogliato e a 17 anni parlava come un rapper da spiaggia mi sembrava destinato a finire dritto dritto al 7-Eleven di Frankston. Due mesi dopo lo vidi in campo e capii che chi dice che per emergere nello sport serve la testa, forse intende un’altra testa.
I giovani talenti nel tennis maschile sono davvero tanti e di ottimo livello, a partire dagli stessi Nick Kyrgios e Thanasi Kokkinakis fino ad arrivare a Jordan Thompson, Luke Saville, Omar Jasika ed il giovanissimo Alex De Minaur: che decennio si prospetta per quanto riguarda la Coppa Davis, con magari un Lleyton Hewitt come possibile capitano?
Se supererà indenne la botta iniziale, tra un paio di stagioni Hewitt potrebbe ritrovarsi al volante di una fuoriserie. Portarla al traguardo sarà un’altra storia, perché il doppio non sarà mai di valore assoluto e perché a turno almeno un singolarista verrà sacrificato e probabilmente si legherà l’esclusione al dito, aumentando le frizioni. Hewitt sa sicuramente fare il martello ma non ce lo vedo nei panni di incudine, come Rafter. Non sarà facile gestire disciplina interna e le aspettative esterne, e se va avanti così il mondo del tennis prenderà di mira questa banda di bad boys e ogni partita diventerà una battaglia. Aggiungici che in mezzo a questa collezione di testine calde nessuno mi sembra in grado di garantire un rendimento costante, figuriamoci due punti, e capisci che questa generazione potrebbe essere ferro o piuma. Certo, il futuro sarà all’insegna dell’anarchia, non ci saranno più Murray o Djokovic a vincere Davis da soli, quindi tutto sommato mi sorprenderei se tra dieci anni non avessimo un paio di insalatiere in più. (il passaporto ce l’ho, ovvio che se si vince sul carro del vincitore ci salgo pure io, fossi scemo).
Tra le donne, invece, oltre alla rampante Daria Gavrilova, l’età media sembra piuttosto alta per pensare al futuro, anche se si seguono con attenzione le giovanissime Naiktha Bains (finalista al Trofeo Bonfiglio 2014) e Destanee Aiava (già vincitrice in ben 5 eventi Under 18 a soli 15 anni). C’è margine per il salto di qualità anche per le ‘ladies’?
Qualche giorno fa Woodbridge mi ha detto che le donne vivono la situazione in cui si trovavano gli uomini 5 o 6 anni fa. Io non potevo fare a meno di chiedere all’oste se il vino era buono, lui non poteva rispondermi diversamente. Il quadro complessivo non può che migliorare. Aiava e Bains giocano bene ma non mi sembrano gli Special K’s al femminile. Quelli o te li regala madre natura o niente. Puoi portare avanti programmi e progetti, garantire sussidi e carte di credito, infrastutture e tecnici, fisioterapisti e preparatori atletici di spessore mondiale, ma dal mucchio tiri fuori al massimo una Provis e una Dellacqua.
Per noi che siamo a quelle solite 10.000 miglia di distanza viene spontaneo fare una riflessione sul futuro del tennis azzurro: ci sono gli elementi per vedere presto emergere gli eredi dei campioni italiani di questi ultimi anni? Cosa serve al tennis italiano per portare più interpreti in Top10?
Se lo sapessi, mi presenterei a Tirrenia e baratterei la ricetta con una fornitura a vita di grisbì.
(tratto da Spazio Tennis)

sabato 1 agosto 2015

High and Dry


Se mi negano il visto di ingresso nonostante 4 libri a tema, 3 ostelli prenotati, 2 passaporti validi e 1 nome di battesimo che piu' persiano non si puo', peggio per loro. Dirotto sull'Etiopia.



Day 1-2
Qualcuno tra Virgin e Etihad non ha fatto il suo dovere. Cosi' per una volta che decido di imbarcare lo zainetto, mi ritrovo a dover girare un bazar* alla ricerca di un paio di mutande.


* tra parentesi pure bello, a Kashan

Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me
 In the jingle jangle morning I'll come followin' you

martedì 30 giugno 2015

Citizen Castaldo

Una mattinata grigioscura di dicembre ho capito che l'ansia da prestazione è come andare in bici. Una volta sperimentata, non si dimentica. Lonsdale street, angolo Spring, secondo piano, Ministero dell'Immigrazione, test per la cittadinanza. Prima di consegnare un faldone con tutti i passaggi di frontiera degli ultimi 10 anni, ho ripassato quello che viene chiamato study book.
In realtà un opuscolo sottile come il manuale della lavastoviglie.
Tra una sequela di date, personaggi e informazioni che in altre circostanze sarebbero entrate da una parte con la stessa velocità con la quale sarebbero uscite dall'altra, una ridda di ovvieta'. Tipo il funzionamento di una democrazia parlamentare, la tripartizione dei poteri e la laicita' dello Stato. Roba che ai rifugiati beluci, azara e dinka deve sembrare la formula di Eulero, ma che all'occidentale medio fa ripensare con nostalgia all'ora di educazione civica. Quando potevi tranquillamente dedicarti al picchetto e al fantacalcio.
Una passeggiata di salute, a walk in the park, 'sto test.
Tra l'altro - mi dicono - se lo fallisco al primo giro posso riprovarci subito, con un tutor che mi tiene la manina. Ecco perche' dal 2007 l'hanno affrontato in 650mila e sono stati bocciati giusto 7.200. Ed ecco perche' se toppo mi conviene espatriare assieme alla mia spocchia eurocentrica e sparire senza lasciare traccia.
E l'ansia pompa.
Perche' la procedura e' a ostacoli e prevede che prima passi per un funzionario di origine salvadoregna. Il quale insiste col chiedermi per quale motivo uno debba andare in vacanza in Libia, in Yemen e in Oman.
Quando mi siedo davanti al pc ho la salivazione azzerata.
Quant'e' che non mi ritrovo faccia a faccia con un test a risposta multipla? In inglese, per giunta? Per una prova anonima e facile, poi, dove non te la puoi prendere neanche con la piaga del nepotismo? E dove in 15 minuti devi azzeccare 16 risposte su 20, mica due o tre. Cosi', sulla prima domanda, mi blocco. Leggo, rileggo e ririleggo.
Poi la leggo ancora, dall'inizio, con calma.
"Quali sono i colori della bandiera australiana?" chiede, se ho letto bene.
Respiro, ragiono, rileggo,
Dev'esserci una trappola.
Forse qualche stella e' bordata di nero, il blu in verita' e' elettrico, oppure azzurro. O forse cobalto. E il rosso e' pompeiano. Niente, tra le risposte multiple 'pompeiano' non c'e'. Clicco su "Bianco-rosso-blu". Risposta corretta. Sono passati 44 secondi. Per rispondere correttamente alle altre 19 domande - un filino meno scontate - servono altri 2 minuti e mezzo. Una ogni 8 secondi.

Dopo sei mesi e un giro di fax per spiegare che a maggio vado all'estero (al Foro Italico, mica in Corea del Nord, fossi scemo), nella cassetta della posta arriva finalmente l'invito a comparire. La cerimonia si tiene nel municipio di Preston nel giorno piu' corto dell'anno, il 21 giugno. Il che per il mio dirimpettaio cantonese (che ha dovuto rinunciare alla sua cittadinanza cinese) e' metafora della luce che sta per illuminare la sua esistenza, per me del buio nel quale e' precipitata la mia. Assieme ad altri 79 immigrati mi ritrovo a giurare fedelta' ai principi costituzionali della federazione e del Commonwealth, a mugugnare quel che poco che so dell'inno nazionale e a spazzolare un tiramisu' gigante a forma di nuova Patria. Non prima di aver stretto la mano al sindaco di Darebin, al signor Rajish (che pero' non so chi sia, visto che mentre parlava cercavo di ripassare le parole dell'inno), ad un ragazzotto che mi regala una spilletta, ad un tizio che mi offre una piantina, ad una signora che mi allunga un attestato e a tal Fiona Patten, deputata del Sex Party che li' per li' lancia occhiate de fuego a tutti i maschi presenti, e che poi inviera' una letterina ammiccante a tutti i neo australiani, perche' 80 voti vergini fanno parecchio sangue.
Faccio fatica a respirare la solennita' del momento, e non me ne puo' fregare di meno di farmi immortalare mentre stringo le mani a tutti i delegati, ma visto che gli altri 79 non sono del mio stesso avviso, si esce dal Municipio quando e' gia' sera. Dopodiche' bastano altri 250 dollari e un paio fototessere nelle quali faccio uno sforzo disumano per non sorridere, e il passaporto e' pronto.
D'ora in poi, se un Ministero degli Esteri dimentica di convalidarlo e mi manda in giro per il mondo con un documento irregolare, ho comunque un altro passaporto da mostrare alla pattuglia ucraina che mi ferma per atti osceni in luogo pubblico.
Se il diluvio sul Kilimangiaro ne cancella la data di scadenza, ne ho sempre un altro da sventolare sotto al naso del doganiere di Fiumicino che mi accusa di averlo fatto apposta (eppure la data di emissione parla chiaro, pirla).
Se al confine tra Aqaba e Eilat imbrattano una pagina col visto israeliano posso ancora completare il puzzle col Pakistan, il Sudan e gli altri Paesi che altrimenti non mi farebbero entrare.
Se poliziotti turchi mi divelgono un pagina, se funzionari mongoli si lamentano perche' non riesco ad assumere la stessa espressione della foto, se gabellieri moldavi mi tengono a bagnomaria perche' sono entrato illegalmente passando dalla Transnistria, se ne dimentico uno nella tasca interna della giacca e me ricordo quando la lavatrice e' arrivata alla centrifuga, in tutti i casi ne ho uno di riserva. Da lasciare sotto la doccia di un ostello di Chicago. 
Di buono c'e' anche che se finisco nella morsa dell'ISIS, d'ora in poi ho il doppio delle possibilita' che un governo si muova per togliermi dai guai. Ma ho pure il doppio del doppio del doppio delle chances che contro di me si scaglino i leoni da tastiera. Di buono c'e' che adesso diventero' parecchio piu' bello agli occhi di un sacco di italiane, ma e' pure vero che se continuo a frequentare australiani diventero' palloso come un film di Lars von Trier. E allora non mi restera' che diventare pure ricco. O prendere una terza cittadinanza.
Quel che mi lascia perplesso, adesso, non e' tanto lo sdoppiamento dell'identita' e della personalita', il raddoppiamento delle tessere elettorali e del tempo necessario per spiegare da dove vengo e che sono si', italo-australiano, ma mica come quelli la'. No, quel che non capisco e' cosa rappresento da oggi in termini statistici. Per dire, se domattina schiatto per parassitosi o trafitto da un'alabarda mentre piscio dalla finestra come Remigio, divento un numero per le statistiche di Roma, di Canberra o di tutte e due? 
p.s. questo non e' l'inno. L'inno e' peggio.

mercoledì 6 maggio 2015

A volte ritorno

A Tullamarine, su un paio di A330 dell'Air Asia, a Kuala Lumpur, a Pechino (dove in primis si dorme in aeroporto, poi si spera che la compagnia di turno non chiuda), a Panmunjom (stavolta dall'altra parte, pero'), ad Abu Dhabi, a Fiumicino, al Foro Italico, su Supertennis. E poi da Jonas, da Filippo, da Viggo, da Valerio, da Bruno grande e da Bruno piccolo.